
di Gaetano Vallini
La copertina dell’ultimo numero della rivista «Voci di dentro» mostra a tutta pagina l’immagine di alcune persone in abiti eleganti sedute tranquillamente ai tavoli di un ristorante, mentre all’esterno, oltre le vetrate, il mondo brucia. Significativo il titolo che l’accompagna: “La zona d’interesse”. Il riferimento è all’omonimo, bellissimo film di un paio di anni fa di Martin Amis, premiato con due Oscar, che, capovolgendo il punto di vista, mostra l’orrore di Auschwitz dalla casa del comandante del campo di sterminio, Rudolf Höss, costruita a ridosso delle mura di cinta del lager, nella “zona d’interesse”, appunto, come i nazisti chiamavano l’area che circondava la più micidiale fabbrica di morte della storia. Una casa dalla quale non si vede nulla di ciò che accade all’interno del lager, ma dalla quale si sentono le urla delle ss e dei prigionieri, gli spari, il latrare dei cani, il rumore incessante dei crematori, notte e giorno, con quella cenere d’uomini spinta talvolta dal vento nel giardino. Nella casa tutti sanno, ma la vita scorre in un’apparente, sconvolgente normalità.
Un’intuizione interessante, quella della direzione della bella rivista che si occupa del mondo del carcere, perché offre un’amara lettura di quanto sta accadendo oggi nel mondo. Di fronte alle guerre che insanguinano Palestina, Iran, Israele, Libano, Yemen, Ucraina, Repubblica Democratica del Congo, Sudan, Myanmar — solo per ricordare le più citate di quella terza mondiale a pezzi evocata da Papa Francesco — si rischia di diventare come gli avventori di quel ristorante: consapevoli di quanto accade all’esterno, ma disinteressati, come se tutto ciò non ci riguardasse. Come se ci stessimo abituando ai morti, alle distruzioni, al dolore e al terrore di chi è sotto le bombe. Anzi, dopo anni di queste immagini — che prima quantomeno ci indignavano — forse cominciamo persino a sentircene infastiditi, perché turbano le nostre vite tranquille. Non ci preoccupiamo più nemmeno quando sentiamo qualcuno minacciare l’uso di armi atomiche. Eppure fino a qualche tempo fa questo era lo spettro della peggiore, quasi innominabile, delle catastrofi, tanto che su quella paura si era costruito un equilibrio di pace che ha retto per decenni.
Ma non siamo solo noi a rischiare di restare indifferenti. Ed è l’aspetto più allarmante. La comunità internazionale sembra ormai assistere come fosse uno spettatore imparziale, senza trovare la forza di intervenire per fermare queste guerre, alcune delle quali sembrano proprio non interessare. La diplomazia non trova nemmeno le parole per condannare azioni abominevoli, ostaggio di interessi di parte e di un passato che soffoca la verità, anche la più evidente.
L’ignavia o la silenziosa connivenza di questo tempo saranno giudicate dalla storia, come inequivocabilmente sono state giudicate quelle del passato. Ma si dovrà proprio aspettare quel giudizio, tardivo, o non sarebbe meglio passare alla storia per aver evitato altre inutili stragi? C’è una pace disarmata e disarmante da costruire ora e da preservare, per dirla con Leone XIV, che proprio stamane ha chiesto di non abituarsi alla guerra, di uscire, dunque, dalla “zona d’interesse”. Perché per la pace non è mai troppo tardi. Anche se si è già in colpevole ritardo.