
di Guglielmo Gallone
È sorto in uno degli angoli più invisibili di Insein, nella periferia di Yangon, la città più popolosa del Myanmar, situata a sud del Paese, dove 350 famiglie vivono in una discarica abusiva costruita dopo il ciclone Nargis del 2008. È un piccolo edificio, colorato e semplice, dove ogni mattina, tra i cumuli di rifiuti e le baracche di lamiera, si alzano voci di bambini. Ed è un esempio di come intraprendere «la strada del dialogo inclusivo, l’unica che può condurre a una soluzione pacifica e stabile», di cui Papa Leone XIV ha parlato all’Angelus della scorsa domenica facendo riferimento proprio al Paese del Sud-Est asiatico dove, «nonostante il cessate-il-fuoco, continuano i combattimenti, con danni anche alle infrastrutture civili».
La struttura di cui stiamo parlando si chiama Golden Beehive, l’Alveare d’Oro, ed è amministrata dalla New Humanity International, fondazione creata dai missionari del pime nel 2019. Alveare, come comunità in cui uno si prende cura dell’altro, in cui ognuno ha il suo ruolo e chi detiene la leadership sa farsi guida dei più piccoli. Oro, come il colore sacro per il popolo birmano. Non si tratta solo di un nome poetico: qui, come in un vero alveare, si cresce insieme. C’è chi guida, chi accoglie, chi impara a muovere i primi passi nel mondo, chi viene riconosciuto come essere umano. E poi c’è chi ha scelto di restare per costruire futuro dove sembra impossibile anche solo immaginarlo. Fra loro, ci sono diversi missionari con cui il nostro giornale ha avuto modo di interagire, soprattutto dopo l’accorato appello di Papa Leone per il Myanmar.
In modo anonimo, ci raccontano che questo progetto, nato nel 2022 per promuovere il pieno sviluppo fisico e psicologico di 60 bambini in età prescolare (4 anni), oggi è arrivato a ospitare ben 89 minori. Nessuno di loro è registrato all’anagrafe: per lo Stato questi bambini non esistono. Senza documenti, non hanno diritto a scuola, né a cure mediche. Le loro famiglie vivono alla giornata, guadagnando meno di 5.000 kyat al giorno (circa 2,50 euro), senza alcuna prospettiva per il futuro e senza nemmeno potersi permettere un pasto completo. Eppure, proprio qui, in uno dei distretti più estesi del Paese, con oltre 300.000 abitanti ma devastato dal ciclone Nargis del 2008 che ha costretto 1500 persone a rifugiarsi in questo enorme slum, dove le condizioni igieniche sono scarse e dunque proliferano le malattie infettive, ogni giorno si cerca di dare a questi bambini e alle loro famiglie una possibilità.
«In Myanmar ci sono una generosità e una sensibilità enormi — ci racconta un missionario cattolico sul posto —, quando le persone si accorgono del lavoro che facciamo e della gratuità con cui lo facciamo, ci vengono incontro. Non è scontato perché, molto spesso, la diffidenza nei confronti degli stranieri è alta. Invece, l’atteggiamento cambia quando sanno ciò che facciamo. E allora il contesto cambia persino negli slum: le famiglie diventano più attente, i giovani più curiosi e noi più radicati sul territorio, proponendo attività e incontri, come quello della scorsa settimana coi bambini disabili. In questo senso, la scuola, unica attività educativa presente nello slum, mira a diventare un punto di riferimento per il quartiere e un’occasione per avvicinare le famiglie e avviare percorsi di educazione anche con i genitori». Ecco dunque emergere il senso della missionarietà: «Poter stare vicino a queste persone, poterli incontrare e alleviare un attimo le loro difficoltà, facendoli contenti, scambiando due chiacchiere: questo cambia il cuore della gente e quindi cambia, dall'interno, la società. Noi non facciamo politica, ma facciamo in questo modo un lavoro di contesto sociale».
Che, in un Paese come il Myanmar, è tutt’altro che facile. Divenuto provincia dell’India britannica dopo le guerre anglo-birmane del 1824-1886, invaso dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale, indipendente dal 1948, per il resto dello scorso secolo dilaniato dal conflitto tra il generale Ne Win e i nemici della dittatura, dopo una breve parentesi democratica con Daw Aung San Suu Kyi, dal 2021 il Paese è alle prese con le conseguenze di un colpo di Stato capace di generare 3,6 milioni di sfollati interni e 1,5 milioni di persone in cerca di rifugio all’esterno del Paese (dati del report Unhcr Global Trends pubblicato lo scorso 12 giugno), senza considerare la condizione di almeno 15 milioni di birmani che hanno bisogno di assistenza umanitaria, fra tutti i Rohingya. Il caos istituzionale, le ambizioni energetiche legate alla presenza di materie prime necessarie a realizzare la transizione energetica – come barite, stagno, tungsteno, oro, argento, piombo e zinco – e gli interessi economici legati alla manodopera a basso costo hanno scatenato una faida etnica, spesso alimentata dagli interessi delle potenze straniere, che si sta traducendo in un conflitto senza fine nonostante il cessate-il-fuoco annunciato lo scorso 20 gennaio dal ministero degli Esteri cinese tra il Myanmar National Democratic Alliance Army (Mndaa) e la giunta militare birmana. «Gli scontri vanno avanti in modo particolare in tre aree – ci racconta un’altra fonte anonima – una è il Chin State e la regione nord-occidentale di Sagaing, poi c’è l’ovest del Paese, in particolare lo Stato Rakhine, e infine Kayah, Shan e Kayin State. Tutte queste aree sono ricche di risorse naturali come giade, rubini, legname pregiato e terre rare. Proprio per questo sono contese. I conflitti non sono solo politici, ma anche economici: si combatte per il controllo di territori strategici, dove la ricchezza naturale è causa di instabilità e violenza».
In un’intervista rilasciata lunedì all’agenzia Fides, Joseph Kung, laico cattolico di Yangon impegnato nella Chiesa locale e docente in un’università privata, conferma che «le infrastrutture civili continuano a essere colpite dall’esercito e distrutte in tutto il Paese», menzionando «l’attacco aereo sul villaggio di Oe Htein Kwin, nella regione di Sagaing, che ha ucciso 20 studenti e due insegnanti», aggiungendo poi che «riceviamo continue segnalazioni dalle diocesi di Bamaw Myitkyina, entrambe nello stato Kachin, dove molti villaggi vengono distrutti e i civili continuano a fuggire». Il vicario generale dell’arcidiocesi di Mandalay, padre Peter Sein Hlaing Oo, parlando sempre con Fides dice che «il territorio di Sagaing è quello maggiormente interessato da scontri, bombardamenti e immani sofferenze dei civili». Qui, dove «tanti villaggi sono ormai deserti o ridotti in macerie a causa dei continui bombardamenti» e «la gente inerme non sa dove trovare rifugio», «vi sono chiese e parrocchie cattoliche in gravi difficoltà» e «fedeli in mezzo al fuoco incrociato». Nonostante ciò, «i nostri preti – aggiunge il vicario – coraggiosamente sono impegnati ad aiutare la gente, anziani, donne e bambini che spesso mancano anche del minimo sostentamento».
In questo scenario la vicinanza di Papa Leone diviene ancora più preziosa e concreta. «In Myanmar oggi c’è una grande paura generale – racconta un’altra fonte locale al nostro giornale – questa mattina un bravo medico nel villaggio di Charon mi raccontava che tanti giovani stanno scappando di notte per paura di ritrovarsi coinvolti nel conflitto. Tante giovani, invece, sono bloccate all’aeroporto e non possono lasciare il Paese nonostante abbiano un contratto di lavoro. Questo caos annienta ogni speranza, ogni prospettiva di futuro. Anni fa, quando sono arrivato in Myanmar, vedevo tantissimi giovani. Per me era una gioia incontrarli sui bus o vederli dirigersi verso le università e le scuole. Io qui non ho mai avuto paura. Adesso le cose sono cambiate. E tutti cercano di sopravvivere in ogni modo. Arruolandosi, facendosi sfruttare, rubando ovunque possono. Così il Myanmar sta cambiando. E nessuno se ne accorge».