Un’estensione fuori dai confini regionali avrebbe conseguenze disastrose

Il rischio di un conflitto globale

A personlooks on amid damaged buildings and vehicles in the Israeli city of Ramat Gan near Tel Aviv ...
14 giugno 2025

di Roberto Cetera

Il rischio che la guerra mondiale “a pezzi” denunciata da Papa Francesco divenga un vero conflitto globale è quanto mai reale. L’attacco sferrato da Israele all’Iran nella notte del 13 giugno è sicuramente il momento di più grave tensione in Medio Oriente dal 7 ottobre 2023 e dallo sconvolgimento della mappa geopolitica della regione che ne è conseguito.

Che Teheran, sotto la guida degli Ayatollah, abbia costituito ormai da anni un fattore di grave destabilizzazione ed una minaccia reale per la sicurezza di Israele è fuor di dubbio. Così come sembra che l’ultimo rapporto dell’Aiea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica) avesse segnalato lo stato sempre più avanzato di una possibile realizzazione di ordigni atomici nei laboratori iraniani. Ma il punto oggi è piuttosto quello di capire se l’operazione militare di Israele, anziché ostacolare questa destabilizzazione, non finisca col produrre una pericolosa estensione del conflitto. Anche fuori dei confini regionali.

Una legittimità a questo dubbio è dato dalla stessa ondivaga posizione statunitense. Già poco più di due mesi fa Netanyahu, nella sua visita a Washington, si era proposto di condurre la medesima operazione militare contro l’Iran ricevendo però uno stop dall’amministrazione Usa che lo informò piuttosto di avere iniziato negoziati con Teheran. Un episodio che ha segnato l’inizio di una serie di differenze evidenti tra la diplomazia israeliana e quella statunitense. Si sono quindi succeduti gli incontri di Trump con i Paesi moderati del Golfo visti con diffidenza da Israele. L’incoraggiamento del presidente Usa al nuovo leader siriano Al Sharaa, mentre l’Idf continuava all’opposto a bombardare Damasco. E, soprattutto, la pressante richiesta di Trump a farla finita con la guerra a Gaza. L’ultima volta solo tre giorni fa nel corso di una telefonata tra i due leader. Per questo tra gli analisti ricorre l’ipotesi che il senso politico dell’iniziativa militare decisa da Netanyahu contro gli Ayatollah sia stato proprio quello di forzare la mano all’alleato americano mettendolo di fronte al fatto compiuto. La reazione di Washington ai fatti di queste ore non sembra di facile lettura: se da un lato il segretario di Stato, Marco Rubio, si era affrettato a sottolineare l’unilateralità dell’azione militare israeliana, che non era stata condotta in affiancamento con gli Usa, il presidente Trump più tardi in un tweet su X ne ha sostenuta la totale approvazione, minacciando anche un proseguimento persino più violento.

Ma oltre a questo aspetto della relazione con gli Stati Uniti, sicuramente anche altri fattori hanno giocato nell’indurre Netanyahu a scatenare l’attacco aereo sull’Iran proprio ora. Il primo è probabilmente il tentativo di distogliere l’attenzione della comunità internazionale da quanto sta succedendo a Gaza. L’attività militare, il persistere dei bombardamenti sui civili nella Striscia, hanno suscitato reazioni diffuse di riprovazione, che hanno creato intorno ad Israele un isolamento internazionale — anche dei più tradizionali alleati — che non ha precedenti nei quasi 80 anni di storia del Paese. Fra soli tre giorni sarebbe dovuta iniziare a New York una conferenza Onu, promossa da Francia e Arabia Saudita, per la pace a Gaza, nel corso della quale Macron avrebbe annunciato il possibile riconoscimento dello stato palestinese.

Il tentativo di Netanyahu di ricompattare l’Occidente contro il nemico comune iraniano, facendo passare in secondo piano Gaza e le decine di migliaia di vittime, sembrerebbe riuscito, visto che il presidente francese ha deciso nella serata di ieri di cancellare la conferenza. Ma questo tentativo di distrazione vale anche per il fronte interno, dove cresce ogni giorno di più la stanchezza e l’insofferenza di buona parte della popolazione israeliana contro la conduzione della guerra da parte di Netanyahu. Inevitabilmente sotto la gragnuola di razzi che cadono su Tel Aviv e Gerusalemme sono finite in sordina tanto le minacce di apertura di una crisi di governo da parte dei partiti religiosi ortodossi, quanto le cronache delle udienze del processo che vede Netanyahu imputato per corruzione.

Gli apologeti dell’intervento militare contro l’Iran insistono dal canto loro nel sostenere la sua inevitabilità e necessità per garantire la sicurezza di Israele, attribuendogli il carattere di “giusta guerra”. Ma si tratta di un attributo giunto alle nostre orecchie più volte nel recente passato: per esempio in Iraq, in Afghanistan, o in Libia, o nello Yemen. Quelle disfatte sia politiche che militari sembrano non aver insegnato alcunché. L’escalation militare di queste ore segnerà ancora una volta il fallimento di quelle leadership che, dimostratesi incapaci sul terreno diplomatico, e pervase — come diceva ieri mattina nella sua omelia a Gerusalemme il Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton — da una “lussuria bellicista”, non conoscono altro strumento per la risoluzione delle controversie che la guerra.