Nella Turchia siriaca un pellegrinaggio con l’associazione Amici del Medio Oriente per riscoprire le radici di una tradizione poco nota temprata da una fede millenaria

Il monachesimo che resiste

 Il monachesimo che resiste  QUO-133
10 giugno 2025

di Antonella Palermo

Sotto un cielo straordinario, ripercorrere le origini del monachesimo del Tur ‘Abdin significa entrare in contatto con le radici semitiche del cristianesimo, con le pietre vive di presidii spirituali tra i più affascinanti al mondo. «Quanto è grande l’apporto che può darci oggi l’Oriente cristiano!», ha ricordato Leone XIV in uno dei suoi primi discorsi, in occasione del Giubileo delle Chiese orientali. Qui, dove la fede è tenace sebbene i cristiani siano ridotti a numeri modesti, se ne ha prova. Con un gruppo di pellegrini, guidato da monsignor Paolo Bizzeti, già vicario apostolico di Anatolia e tutt’ora presidente di Caritas Anatolia e dell’associazione Amici del Medio Oriente (Amo) che organizza l’itinerario, l’attraversamento di questo altopiano calcareo dà modo di visitare centri di preghiera e formazione il cui periodo di massima fioritura è stato tra il IV e l’VIII secolo. In epoca medievale si contavano almeno un’ottantina di monasteri. All’incrocio di varie civiltà, hanno subito varie volte saccheggi e massacri ma qui, più che in Siria, hanno resistito nel tempo. Attualmente sono otto quelli attivi nella regione e un paio a Mardin, come precisa la guida curata, per le Edizioni Terra Santa, dal vescovo Bizzeti e dal priore della Comunità di Bose, fratel Sabino Chialà, prezioso strumento per entrare in contatto con una geografia fino a qualche anno fa priva delle minime indicazioni per una comoda accessibilità.

La pietra color miele dei monasteri è un baluardo di cura, orazione, memoria, arte. Se ne conserva la sapienza millenaria nel costruire architetture ardite, con camminamenti sotterranei, dove riposano fondatori e martiri, e aerei, con terrazze percorribili da cui si godono viste mozzafiato. Rimangono sovente i segni evidenti della matrice pagana su cui sono stati per lo più edificati: è il caso, per esempio, del monastero “dello Zafferano” la cui parte antichissima, dedicata al dio del Sole, risale al duemila avanti Cristo. Oltre cinquanta patriarchi e metropoliti vi sono sepolti, non sdraiati ma seduti «in modo da essere pronti per salutare il Padre al momento del Giudizio universale», spiega abuna Gabriel. «Il sangue dei martiri non è vano», racconta indicando i punti di maggiore distruzione da parte dei mongoli di Tamerlano: a scomparire anche gli affreschi con i colori naturali. In alto i ballatoi, indizio di una numerosa partecipazione alle messe, anch’essa perduta.

Alla vivacità del monastero Deyrul Zafaran si affianca la suggestione di alcuni antichi centri ridotti a pochi ruderi e di altri ben conservati ma privi di persone, se non quelle che ne conservano le chiavi. È il caso di Santa Maria di Hah, con la sua iconica parte sommitale, un gioiello di architettura con un’abside esclusiva nel suo genere: all’esterno risalta anche grazie a un gioco iperbolico di balaustre che si affaccia su campi sterminati. Provoca un fascino particolare apprendere che il monastero dedicato a Mor Malke, distrutto e ricostruito più volte, sia stato immortalato, tra gli altri, dall’audace viaggiatrice e fotografa Gertrude Bell. Il tempo si dilata, il respiro pure. L’ennesimo tè ristoratore è offerto non lontano da Midyat, nell’ampio monastero di Mor Yaqub a Salah. Conserva ancora intatta una chiesa del V secolo in onore del martirio di Giacomo il Recluso. Il monastero più attivo resta Mor Gabriel, considerato il più grande, fondato dai santi Samuele e Simeone: nel V secolo ospitava cinquecento monaci, arrivando ad averne anche milleduecento. Oggi ce ne sono quattro, tredici le monache, ventiquattro gli studenti, una decina i laici e un metropolita. Di cinque chiese originarie ne restano due. Ammaliante e ipnotico è ascoltare uno dei momenti di preghiera quotidiana con i giovani che a due cori recitano salmi e inni con la tipica melodia locale. Le monache non sono così visibili pur condividendo le attività comunitarie. La frequentazione del luogo è consistente anche a motivo di un’area adibita a museo con elementi di rara bellezza tra cui una cappella a mosaico sullo stile ravennate.

A 1250 metri di altitudine da dove nei giorni limpidi si vedono la piana della Siria e i monti dell’Iraq, campeggia un monastero che, secondo la leggenda, è stato edificato con la calce prodotta grazie al latte delle gazzelle che lo avrebbero offerto spontaneamente per venire in soccorso della mancanza d’acqua. Tutt’ora l’acqua corrente non c’è: un aspetto che acuisce la fatica dell’unico monaco che qui abita ma che ne aumenta, forzosamente, l’intraprendenza. Si chiama Aho, un concentrato di energie e di sorriso. Ci ha messo piede dodici anni fa, primo a tornarvi dopo due secoli di abbandono. Nessuno sa come riesca a badare a tutto, a rendere tutto così meravigliosamente ospitale. In dieci anni sono stati creati il muro di recinzione, le cisterne, i terrazzamenti. «C’era un solo albero, oggi ne abbiamo duemila», racconta. Ora è un figlio di cui i genitori sono orgogliosi, ma la sua vocazione non ha avuto storia facile. Quando non c’è la scuola di lingua siriaca, è possibile alloggiare nella guest house costruita anche grazie all’associazione Amo. Aho non vuole che questo luogo diventi un museo: non potrebbe più pregare. Durante i cinque rigidi mesi invernali resta completamente da solo, arriva a perdere la voce: «Un tempo perfetto per la vita spirituale». Accenna al materialismo che si diffonde ovunque: «Prima con poche cose ci si arrangiava, oggi no. L’amore, la vita semplice, la modestia, la misericordia: questo basta». Nella zona vivono cinquecento famiglie. Il monaco è realista: essere una minoranza così sottile può portare alla completa estinzione. Eppure continua ad affidarsi al Signore, sostegno nelle prove, come gli inspiegabili incendi a catena o i blocchi dei lavori.

Vibrante è il canto del Padre nostro in aramaico, qui più che mai voce di tribolazione e supplica. Cielo e terra si tengono in un unico filo di obbedienza. Ne fanno esperienza i due monaci sul monte Izlo, nel monastero dedicato a Mor Awghin, l’iniziatore di questi luoghi di preghiera, poi abbandonati durante il Medio Evo dai monaci siro-orientali e in seguito gradualmente abitati dai siro-occidentali nelle cui mani sono tutt’oggi. C’è un’ora di salita a piedi, siamo a trecento chilometri da Mosul. La vista della Mesopotamia è incomparabile. Le nicchie naturali delle rocce sono nido di uccelli, incavi di meditazione. All’opera di contenimento del terreno friabile si è dedicato il monaco che per primo c’è tornato, integrando il lavoro delle mani con quello intellettuale per la redazione di un dizionario del lessico siriaco che mancava da quasi un secolo. Qui la giornata comincia alle 4,45 con un’ora di preghiera che poi fa da contrappunto a tutto il resto del tempo. A condividere qualche parola con i pellegrini è il secondo monaco, schivo e umile, originario di questa regione e formatosi in teologia in Germania. Da qui e dalla Svezia continuano prevalentemente ad arrivare visitatori; da sei-sette anni giungono dall’Europa anche studenti che vi stazionano per un periodo di sei mesi per imparare il siriaco classico. «Non siamo noi importanti ma il santo attraverso di noi», racconta.

Il cristianesimo siriaco è stato segnato da contese ricorrenti, tra parti e romani, tra arabi e bizantini, e turbato da instabilità culturali, ecclesiali e politiche che hanno acuito la strutturale fragilità di una “terra di mezzo”. Le persecuzioni perpetrate dal potere bizantino, per esempio, determinarono anche l’abbandono da parte del patriarca siro-occidentale della sua sede storica ad Antiochia: prima verso il monastero di Mor Barsauma, poi in quello di Deyrul Zafaran, poi a Homs e infine a Damasco dove attualmente risiede. È proprio nel monastero “dello Zafferano” (a motivo delle piante di zafferano che vi crescevano intorno e per il colore che le mura assumono in alcune ore del giorno), il vescovo siro-ortodosso Filiksinos Saliba Özmen accoglie il gruppo di pellegrini con amicizia e cortesia: «È molto importante — dice — che specialmente i capi delle Chiese siano modesti perché è la via che ci ha indicato Gesù Cristo». Spiega che le visite sono fondamentali per rafforzare le relazioni tra culture e confessioni. «Vorremmo tanto poter festeggiare insieme Pasqua e Natale, come è accaduto quest’anno per la coincidenza pasquale», auspica il custode: «Quando si può celebrare gli uni nelle chiese degli altri, al di là degli aspetti giuridici, vuol dire che ci amiamo». Le differenze tra le Chiese devono concentrarsi sugli aspetti di unità, insiste il vescovo: «Crediamo tutti in Gesù. Possiamo parlare diverse lingue ma siamo un tutt’uno». E non è che il motto scelto da Papa Leone XIV, In Illo uno unum, dove riecheggia la sottolineatura del Pontefice nel discorso ai rappresentanti di altre Chiese pronunciato il 19 maggio: «Più siamo fedeli e obbedienti a Gesù, più siamo uniti tra noi». È anche ciò che scriveva già Giovanni di Apamea, tra le maggiori fonti della tradizione siriaca: «Poiché Dio non può essere da noi conosciuto tramite parole o pensieri, ma solo tramite la fede, abbiamo causato molte controversie, ed eccoci [divisi] in fazioni opposte» (Dialoghi con Thomasios, 7).

Del resto, come la guida conferma, oggi molti esperti concordano nel dire che le incomprensioni profonde, maturate lungo i secoli, sono dovute più a differenti categorie interpretative e a difficili corrispondenze linguistiche che non a reali discordanti convinzioni di fede. «La Chiesa siriaca ortodossa è pronta a unirsi a quella latina», afferma convintamente monsignor Bizzeti. Özmen, molto vicino al Movimento dei Focolari, ripone speranze nel legame con le società occidentali che, a parer suo, deve rafforzarsi. Ne beneficerebbe la Chiesa locale, in termini di status e di operatori pastorali: le vocazioni qui non mancano ma non fioriscono come in passato. Imprescindibile è fortificare la spiritualità, osserva, condizione di base, ovunque, per stemperare i conflitti, soprattutto laddove religione e politica si condizionano reciprocamente: «Il nostro auspicio è la convivenza pacifica interna e con tutti. La pace comincia dentro di noi. Noi lo abbiamo dimenticato, ma la pace comincia dai cuori».

In Anatolia essere cristiani è qualcosa che si sceglie ogni giorno. Nulla si può sprecare, dare per scontato, a nulla si può restare indifferenti. E l’unità è oggi allo stesso tempo un anelito ma anche un dato di fatto. Ne è emblematica testimonianza il fatto che nella Turchia siriaca si sperimenta l’ospitalità di gente aperta e desiderosa di collaborare: «Qui si continua a riconoscere il primato della carità», afferma ancora Bizzeti, primato che evidentemente supera il peso di antichi retaggi divisivi. Accade in fondo anche per il senso di appartenenza religiosa, visibilmente più forte rispetto a quelle che possono essere le linee di demarcazione tra Stati, spesso decise da potenze esterne, come le guerre insegnano. Qui, peraltro, il coinvolgimento della base del popolo di Dio si rivela per molti aspetti più marcato rispetto alla tradizione occidentale: la scelta di preti e vescovi, per esempio, in Oriente riflette una spiccata sinodalità e predispone inoltre a un più fraterno rapporto tra le confessioni che qui trova storie assai belle di condivisione, vicinanza, unità. È il caso della Chiesa protestante che conta circa centomila cristiani in tutta la Turchia. Il pastore Ender Pecker, la cui famiglia di origine è musulmana, è un convertito che racconta quanto i laici si adoperino testimoniando una presenza credibile, fattiva, gioiosa. Le occasioni possono essere riunire bambini di Chiese diverse per far dipingere uova per la Pasqua, oppure officiare la domenica in chiese diverse per garantire una periodicità che, qualora mancasse, porterebbe facilmente alla chiusura del luogo di culto. «Il rispetto è assicurato. È il Signore che farà vedere la via giusta per restare uniti. Le difficoltà nascono quando il seme gettato finisce tra le spine: allora non cresce, non vive, non muore, non va via».