Tracce per una riflessione a un mese dall’elezione di Papa Prevost

Francesco e Leone XIV
le due inquietudini

 Francesco e Leone XIV  le due inquietudini  QUO-131
07 giugno 2025

 Nel tempo della fragilità globale 


di Antonio Spadaro

Il testimone che passa da un pontificato all’altro è fatto non solo di parole e gesti, ma soprattutto di visioni che sfumano una sull’altra, proiettate dalla stessa fede. Qual è stato il punto di contatto del testimone nel passaggio da Francesco a Leone? Quali le visioni che sono sfumate l’una nell’altra? Lo si capirà nello svolgersi del cammino della Chiesa nel mondo. Basterebbe pensare a quanto per Francesco la parola «attrazione» («il cristianismo cresce per attrazione», diceva Ratzinger) sia stata decisiva. Tra Benedetto e Francesco il testimone era stato chiaro: «Le sfide dei rapidi mutamenti e le sfide delle questioni di grande rilevanza per la vita della fede», come disse lo stesso Benedetto congedandosi. Bergoglio tradusse queste sfide in una «sana inquietudine», l’unica «che dà pace», imprimendo un lento ma costante e francescano movimento ondulatorio e sussultorio alla vita della Chiesa. Ed è «inquietudine» la parola che Francesco il 28 agosto 2013 raccomandò in una formidabile omelia all’allora padre Prevost, generale dell’Ordine di Sant’Agostino, e al suo capitolo riuniti nella loro chiesa in Campo Marzio.

Se c’è una parola che può racchiudere sinteticamente il passaggio di testimone tra Francesco e Leone, essa è proprio «inquietudine», che Leone XIV ha ripreso nelle sue prime parole da Pontefice, quasi a suggellare una continuità profonda, spirituale.

Quello di Bergoglio è stato un pontificato di frutti, ma soprattutto di semi, con una sua propria francescana eccezionalità. Il valore e gli effetti della sua eredità si verificheranno col tempo, si misureranno con la prova della storia e non dei blog. Ha lasciato soprattutto un metodo: il discernimento spirituale. Il suo governo della Chiesa non è mai stato guidato da idee preconfezionate, bensì da un fiuto, e una lettura profonda della realtà, attraverso lo sguardo di un pastore immerso nel popolo. Francesco ha sempre considerato la Chiesa una istituzione, ma ha sempre affermato che a renderla tale è lo Spirito Santo, che «provoca disordine con i carismi, ma in quel disordine crea armonia». Dunque, Bergoglio considerava l’istituzione ecclesiale come un’armonia — non un semplice e umanissimo equilibrio — che si forma costantemente dal disordine della diversità e dei contrasti. Ha mantenuto attiva l’inquietudine tra carismi e istituzioni, consapevole che la Chiesa è «popolo pellegrino ed evangelizzatore», realtà sempre eccedente ogni forma. Lui lo chiamava il desborde, il debordare, di Dio.

A chi ha temuto che il «disordine» fosse pericoloso, l’allora cardinale Prevost nel 2024 in una parrocchia agostiniana dell’Illinois, aveva detto: «Francesco non ha paura di scuotere un po’ la barca, di scuotere le cose. E quando lo fa, ci sono persone che si sentono a disagio. Abbiamo tutti personalità diverse, e abbiamo tutti modi diversi di voler mantenere la barca calma e di dire: per favore, non scuotere la barca, per favore, non farlo. E Francesco dice: “Andrà tutto bene”. Gli piace il Vangelo con Gesù che sembra dormire nella barca e i discepoli sono in preda al panico e dicono: “Perché stai dormendo, stiamo per morire”. E Gesù sa benissimo cosa sta succedendo, ma li lascia scuotere». Prevost aveva capito perfettamente l’inquietudine evangelica di Bergoglio.

Francesco ha avuto una passione radicale per la verità, a tal punto da temere la predicazione di «cose vere» dette senza lo «spirito di verità». La sua finezza al riguardo era mistica, tipica del cuore inquieto che discerne andando al di là delle apparenze. Per questo Francesco ha rifiutato ogni tentazione ideologica, anche nelle riforme più radicali. Il suo governo è stato un esercizio spirituale continuo.

Francesco ha combattuto l’introversione ecclesiale, e Leone — citandolo — lo ha ribadito: «La Chiesa è costitutivamente estroversa», e «l’autoreferenzialità spegne il fuoco dello spirito missionario». Anzi, con una espressione fulminante, Prevost ha aggiunto: «Il popolo di Dio è più numeroso di quello che vediamo. Non definiamone i confini»!

La visione ombelicale è vinta anche grazie all’inquietudine delle differenze. Il suo appello all’unità della Chiesa non nasce da una logica di controllo o di uniformità o di timore, ma piuttosto da un bisogno evangelico: quello di «fare strada insieme». La sinodalità, per Leone, è una forma di carità: il tentativo continuo di ascoltarsi, anche nelle differenze.

Le parole di Francesco al Sinodo del 2015 restano memorabili: «Aldilà delle questioni dogmatiche ben definite dal Magistero della Chiesa, abbiamo visto anche che quanto sembra normale per un vescovo di un continente, può risultare strano, quasi come uno scandalo — quasi! — per il vescovo di un altro continente; ciò che viene considerato violazione di un diritto in una società, può essere precetto ovvio e intangibile in un’altra; ciò che per alcuni è libertà di coscienza, per altri può essere solo confusione». Perciò il vero discernimento non si compie tra idee, ma dentro la storia. Ed ecco che le mani dei pontefici si intrecciano senza saperlo quando Leone, nella stessa parrocchia dell’Illinois disse: «Ciò che potrebbe essere importante nella Chiesa degli Stati Uniti potrebbe non esserlo affatto nella Corea del Sud. E dobbiamo ricordare anche questo, ciò che ho detto prima sull’essere parte della Chiesa universale, mentre cerchiamo modi per essere Chiesa insieme». Da Papa ha parlato della «convivenza delle diversità».

L’unità è il frutto maturo del cammino. E per questo va difesa non con il rigore dell’ideologia, ma con la pazienza della carità. E Prevost sa pure che bisogna camminare anche con «coloro che percorrono altri cammini religiosi, con chi coltiva l’inquietudine della ricerca di Dio, con tutte le donne e gli uomini di buona volontà». L’inquietudine torna sempre nelle sue varie forme, dunque.

Le tensioni inquiete che attraversano la Chiesa globale — tra sensibilità, culture, teologie — non vanno appiattite, ma accolte come segno della cattolicità. L’importante è che esse vadano espresse, come diceva Francesco all’inizio del Sinodo del 2014: bisogna «dire tutto quello che nel Signore si sente di dover dire: senza rispetto umano, senza pavidità. E, al tempo stesso, si deve ascoltare con umiltà e accogliere con cuore aperto quello che dicono i fratelli. Con questi due atteggiamenti si esercita la sinodalità». Per questo — proseguiva — «vi domando, per favore, questi atteggiamenti di fratelli nel Signore: parlare con parresia e ascoltare con umiltà. E fatelo con tanta tranquillità e pace, perché il Sinodo si svolge sempre cum Petro et sub Petro, e la presenza del Papa è garanzia per tutti e custodia della fede». Il pontefice diventa garante della custodia e insieme della possibilità stessa della «parresia».

Bergoglio ha voluto Prevost prima come vescovo e poi come prefetto del Dicastero per i vescovi. Lo ha scelto anche perché è un uomo-mondo: con radici europee, è statunitense di nascita, peruviano per scelta e missione, ha vissuto tra i campesinos delle Ande, ascoltando il grido dei poveri e imparando la mistica della prossimità. Il suo episcopato a Chiclayo è stato un laboratorio di presenza evangelica concreta, che oggi ritorna nei suoi gesti e nelle sue parole. La sua spiritualità agostiniana si manifesta nella capacità di tenere insieme interiorità e missione, inquietudine e carità. Lo sa soprattutto per l’esperienza di essere stato superiore generale del suo Ordine religioso, gli agostiniani, affrontano tensioni e differenze anche tra le sue comunità del Perù e, ovviamente, del mondo.

Le prime parole di Papa Prevost sono di Agostino. Ha citato il celebre passaggio: «Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano», ribadendo che la vera autorità ecclesiale nasce dalla condivisione, non dalla separazione. La sua idea di autorità è disarmata, lontana da ogni forma di superiorità. Ha affermato: «Non bisogna nascondersi dietro un’idea di autorità che oggi non ha più senso». A questo tema aveva dedicato la sua tesi di dottorato nel 1987, e dunque è un tema che gli è caro.

In questo senso, ha ripreso l’impostazione ecclesiologica di Francesco, che aveva denunciato le contrapposizioni stanche tra conservatori e progressisti come una trappola paralizzante. Nel suo primo discorso Leone ha ripetuto l’espressione: «disarmata e disarmante», che si può applicare anche alla Chiesa, che non brandisce il potere come arma, ma che si lascia ferire dalla storia, perché «essere di Dio ci lega alla terra». Una Chiesa che assume su di sé i pericoli del tempo, che non cerca la tranquillità ma la fedeltà. E che è impegnata sul fronte della pace senza protagonismi, mettendosi a disposizione, rifuggendo da «una comunicazione fragorosa, muscolare», e cercando «piuttosto una comunicazione capace di ascolto». Leone, come Francesco, vuole una Chiesa «samaritana» — come ha detto in un’udienza generale —, ospedale da campo in un «mondo ferito».

Leone sa bene che la sua accettazione del ministero petrino era un esporsi all’urto del tempo e della storia. Per questo si oppone alla visione della fede come presidio identitario o politico. Ha reagito con decisione alla strumentalizzazione dell’ordo amoris di Agostino da parte di alcune retoriche populiste, ribadendo che la vera tradizione è quella che rimane fedele alla carità. E per questo, in piena continuità con Francesco, la sua è una diplomazia dei ponti. La telefonata di Putin si riconnette alla paziente tessitura dei rapporti operata da Francesco sin dal suo incontro con l’ambasciatore russo all’inizio del conflitto, e i contatti sempre rimasti aperti col patriarcato.

In un tempo in cui la fiducia nelle istituzioni è in crisi, Leone XIV si presenta come uomo di ascolto e di dialogo. Francesco, nella sua Esortazione apostolica Laudate Deum, aveva scritto che il mondo si sta «sgretolando» e si avvicina «a un punto di rottura». Una diagnosi che non è apocalittica, ma profetica. La Chiesa deve essere il luogo in cui si tiene insieme ciò che si frantuma, deve essere il laboratorio della riconciliazione, deve offrire una presenza che non si rintana nella nostalgia del passato. Leone riprende questo scenario e lo assume come vocazione. Il cuore inquieto di Agostino — che non ha posa finché non riposa in Dio — diventa per lui il paradigma del credente contemporaneo: non colui che «possiede» la verità, ma colui che la cerca incessantemente, nella storia e con la storia. E in questa prospettiva, anche la Dottrina sociale della Chiesa va riletta: «non vuole alzare la bandiera del possesso della verità», ha detto Leone, ma insegnare «ad avvicinarsi», ad abitare le domande.

Prevost non è dunque un Papa che propone ricette, ma un pastore che invita a gettare le reti della fede là dove le domande si moltiplicano. Lo ha detto chiaramente: ogni generazione ha i suoi problemi, i suoi sogni, le sue sfide. Ed è solo «gettando lo sguardo lontano» che si può intercettare ciò che lo Spirito sta suggerendo.

Leone XIV non si presenta come un «condottiero solitario», come ha affermato sin dall’inizio. Piuttosto incarna la figura che lui stesso ha definito del «fermento per un mondo riconciliato». In lui è chiaro il rifiuto di ogni visione elitista della Chiesa, quella dei «nostri piccoli gruppi», che si sentono superiori al mondo.

Nel tempo della fragilità globale e del disincanto diffuso, la Chiesa che Leone XIV inizia a guidare è chiamata a una testimonianza umile ma ferma. Leone è un uomo che sa raccogliere l’inquietudine del tempo e farla diventare forma del proprio servizio. La corsa è già iniziata. E l’inquietudine — quella sana, evangelica, feconda — continua a spingere in avanti i passi della Chiesa. Perché «confermare nella fede» non ha nulla a che fare con il semplice, umano e timoroso «rassicurare», ma ha piuttosto ha a che fare con l’apertura dell’inquietum cor nostrum a Dio all’opera nel mondo e della comunità ecclesiale.

Tra Francesco e Leone c’è un filo che non si spezza. È quello della continuità nel ministero petrino, ed è anche il filo di una fede che non si accontenta. Che cerca. Che si lascia toccare. Che non si chiude. È il filo invisibile che — come scriveva Chesterton — fa sentire il twitch upon the thread, quel fremito lungo il filo che scuote la Chiesa e la spinge a proseguire la sua corsa.