
di Roberto Cetera
Le vicende accadute negli ultimi giorni sulla distribuzione degli aiuti umanitari a Gaza, e il fallimento operativo dell’iniziativa gestita dalla Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), costituiscono la cartina tornasole del più generale fallimento delle prospettive di cessate-il-fuoco nella Striscia. La fondazione è nata come iniziativa congiunta israelo-statunitense per affrontare la grave carestia che sta soffrendo da tre mesi la popolazione palestinese a Gaza, dopo il blocco all’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza imposto dal governo israeliano dall’inizio dello scorso marzo, e soprattutto dopo la cancellazione dell’operatività dell’Unrwa e delle altre istituzioni delle Nazioni Unite.
Israele aveva giustificato questa decisione con la motivazione che i carichi umanitari organizzati dalle Nazioni Unite venivano regolarmente e violentemente sottratti dai miliziani di Hamas, che, facendosi poi distributori alla popolazione delle derrate sottratte, intendevano riaffermare in tal modo la permanenza del suo controllo e dominio incontrastato del territorio. Nella misura in cui questa evenienza fosse vera anche solo parzialmente, dimostrerebbe una volta di più come lo stile di governo esercitato da Hamas sia improntato al più cinico dispotismo della dirigenza islamista, assolutamente indifferente alle sofferenze del popolo che presume di voler rappresentare. La soluzione alternativa disposta da Stati Uniti ed Israele, attraverso la costituzione della Ghf, ha da parte sua dimostrato, fin da subito, una scarsa efficacia e una strumentalità alle intenzioni militari dell’esercito israeliano. Intanto c’è da sottolineare che, secondo le parole del ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, l’iniziativa sarebbe stata motivata, più che da genuine istanze umanitarie, dal tentativo di minimizzare le reazioni internazionali contro Israele ed evitare ulteriori accuse di fronte alla Corte penale internazionale. Solo poche ore dopo il varo lo stesso presidente della Ghf, l’americano Jake Wood (un ex Marine con esperienze in campo umanitario) ha rassegnato le dimissioni sostenendo l’impossibilità a gestire l’operazione mantenendo i «valori dell’indipendenza, della neutralità e dell’umanità». I risultati ad oggi sono in effetti terrificanti: sarebbero almeno un centinaio i palestinesi rimasti uccisi durante le operazioni di distribuzione del cibo nei tre punti organizzati. E negli ultimi due giorni i punti di distribuzione sono rimasti chiusi. Di più viene fatto notare che la localizzazione di questi punti nel sud della striscia nasconderebbe l’intenzione di spingere la popolazione del nord verso il sud al fine di una futura progressiva espulsione. Dopo le dimissioni di Jake Wood, è notizia di queste ore che anche il gigante della consulenza Boston Consulting Group ha annunciato di volersi ritirare dal progetto. Intanto, Ghf ha deciso di affidare la sicurezza dei siti di distribuzione a contractor militari israeliani, con tutti gli evidenti pericoli che questo comporta.
Sulla questione degli aiuti umanitari si sta consumando una cinica partita di convenienza politica, che sembra prescindere totalmente dalle miserrime condizioni in cui si trova la gran parte degli abitanti di Gaza, e soprattutto migliaia di bambini vittime di malnutrizione.
È lo stesso approccio deleterio che motiva, come dicevamo, lo svolgimento delle trattative finalizzate almeno ad una possibile tregua. Se da parte israeliana è manifesta — per bocca dei suoi stessi ministri — l’intenzione di proseguire comunque la guerra fino alla vittoria militare e all’espulsione dal territorio di gran parte della popolazione (nella denunciata noncuranza peraltro per la sorte degli ostaggi), Hamas continua a voler resistere ad oltranza, nonostante la fame e la catastrofe umanitaria a cui è esposta la popolazione palestinese. La dismissione totale della capacità militare di Hamas, l’allontanamento dei suoi dirigenti, la trasmissione del potere a Gaza nelle mani dell’Autorità Palestinese come unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese, demolirebbero le pretese di occupazione e colonizzazione permanente della striscia da parte di Israele.
Non c’è altra possibile soluzione alla guerra che non passi attraverso la restituzione di un ruolo di governo agli uomini di Ramallah. Il problema, paradossalmente, è che però l’Anp, per eterogenesi dei fini, è oggi l’opposizione principale e comune tanto del governo israeliano quanto di Hamas. Israele per l’ansia di seppellire definitivamente gli accordi di Oslo e l’ipotesi dei due Stati. Hamas perché sembra considerare prioritaria la sua egemonia sull’Olp, rispetto alla creazione di uno stato libero e indipendente della Palestina.