A colloquio con l’ambasciatore Pasquale Ferrara, direttore generale per gli Affari politici e di sicurezza della Farnesina

Ridare slancio al dialogo
per rigenerare le fondamenta della concordia internazionale

epa12156269 A handout photo made available by the United Nations shows a view of Council members ...
06 giugno 2025

di Roberto Paglialonga

Difficile sostenere che il multilateralismo al momento goda di uno stato di forma smagliante. Le Nazioni Unite, e in particolare il Consiglio di sicurezza, sono spesso in impasse su decisioni chiave, come le risoluzioni su Ucraina o Gaza; diversi Paesi non riconoscono ancora la Corte penale internazionale, tra cui attori di rilievo regionale e globale, come Israele, India, Turchia, Egitto, oltre a tre dei cinque membri permanenti proprio del Consiglio di sicurezza, Russia, Cina, Usa; Washington a gennaio 2025 si è poi ritirata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e dall’accordo di Parigi sul clima; altre organizzazioni costituite attorno a issues specifiche soffrono di una scarsa rappresentatività perché non tengono conto dei cambiamenti geopolitici avvenuti negli ultimi anni; altre ancora vengono spesso “scavalcate” da piccoli gruppi di Stati che si riuniscono in formati informali non istituzionalizzati. È il caso, per esempio, dei “volenterosi” di cui molto si parla ultimamente a livello europeo.

«Occorre però fare una precisazione — è la convinzione dell’ambasciatore Pasquale Ferrara, direttore generale per gli Affari politici e di sicurezza del ministero degli Esteri italiano, in un colloquio con «L’Osservatore Romano» —: e cioè che, nonostante le difficoltà, il multilateralismo è da sempre un processo, non c’è mai un ordine definitivo acquisito una volta per tutte. Certo, è vero, d’altro canto, che da qualche anno a questa parte, con il ritorno della cosiddetta politica di potenza, si nota un regresso dall’architettura della società internazionale (intesa non solo come insieme di istituzioni, ma anche come corpus di norme e comportamenti tra gli Stati), come l’abbiamo conosciuta a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, verso un concetto primordiale del “sistema internazionale” dove sembrano valere non tanto le regole ma i rapporti di forza». Ma non è proprio della diplomazia scoraggiarsi, «perché le istituzioni multilaterali sono comunque in opera», benché spesso sotto pressione, basti pensare all’impianto del diritto umanitario che oggi a causa delle tante guerre in atto viene quotidianamente vilipeso. «E tuttavia, rimane l’infrastruttura generale delle relazioni internazionali, che è una garanzia. Certamente, poi, molto dipende da come questa infrastruttura viene fatta funzionare, e qui entra in gioco la volontà politica di far sì che il processo vada avanti».

L’organismo che forse più di tutti sta subendo i contraccolpi delle tensioni a livello internazionale è quello delle Nazioni Unite, in particolare per ciò che riguarda il funzionamento del Consiglio di sicurezza (Cds). Più volte anche Papa Francesco aveva chiesto una riforma dell’Onu in un senso che desse più dignità decisionale a tutti. Per quanto riguarda il Cds, «le ipotesi sono tante, ma tutte puntano, a mio avviso, ad allargare ciò che già c’è. Molte fanno riferimento a un ampliamento del numero dei membri permanenti, che hanno diritto di veto. Ma attenzione: allargare un’oligarchia non significa ottenere più democrazia. Più innovativa invece è l’idea di consentire la partecipazione a membri permanenti che rappresentino delle regioni continentali, non dei singoli Stati: e questo è un esercizio di responsabilità e democrazia, perché i vari continenti sarebbero chiamati al loro interno a eleggere a rotazione chi li rappresenta di volta in volta». Anche in questo caso, dunque, se è vero che esistono delle difficoltà «e subentrano le disillusioni», d’altro canto «c’è però la volontà di trovare soluzioni che vadano al di là degli schemi cui siamo abituati».

In caso contrario, ammette l’ambasciatore, «il rischio è che si vada verso un mini-lateralismo, rappresentato da una serie di formati su base ad hoc (tra gli altri, il g7, i Brics, ma anche “i volenterosi”, n.d.r.) che discutono di questioni che invece andrebbero affrontate in un contesto più ampio. Il pericolo è la frammentazione dell’elemento coesivo rappresentato dal multilateralismo in una serie di rivoli spesso costituiti da autonominati, con la conseguenza di mettere in discussione determinate garanzie, come il pluralismo». Il moltiplicarsi di queste realtà porta via via a uno «svuotamento dall’interno del significato stesso delle istituzioni multilaterali». Invece, le aggregazioni «possono essere utili se aiutano a favorire il consenso globale, da raggiungersi nei contesti preposti che portano a decisioni vincolanti. Posso citare l’ultimo G7 a presidenza italiana, al quale si è deciso di invitare nelle diverse sessioni Paesi cruciali, come India, Brasile, Sud Africa, gli Stati del Golfo. Non va dunque persa la dimensione universalistica del multilateralismo».

Ci sono oggi nuove esigenze a livello globale e interconnessioni che richiedono approcci ad esse più funzionali. Un rilancio potrebbe passare — riflette Ferrara, che nella sua carriera ha lavorato anche in Cile, negli Usa, a Bruxelles, in Nord Africa — dal provare almeno concettualmente a mettere insieme «in modo sinergico» tutte quelle strutture che si occupano del «welfare globale, in cui rientrano la cosiddetta sicurezza alimentare, il cambiamento climatico, la cultura: l’Oms, la Fao, l’Unicef ecc. È la dimensione della sicurezza umana e dello sviluppo umano integrale», concetto, quest’ultimo, che trova declinazione già nella Populorum progressio e poi nella Laudato si’. «Sono indicazioni e pensieri che, tradotti nelle policies, diventano scelte organizzative, priorità, attività concrete. Io credo sia addirittura arrivato il momento di fare una nuova conferenza di San Francisco, per capire come rivedere l’ordine mondiale, che oggi viene contestato spesso dagli stessi Paesi che lo hanno creato. Se non mettiamo mano all’impianto generale rischiamo di generare contesti di conflitto anziché di relazione e cooperazione».

Molti analisti legano il ripiegamento del multilateralismo alla crisi delle democrazie, che vede l’emergere di movimenti cosiddetti nazionalistici. «Ma dobbiamo ricordare che nell’Onu ci sono Stati con tendenze autocratiche da sempre. È un fenomeno che non nasce adesso», dice Ferrara. Certo, «ci può essere una connessione tra ciò che è l’idea stessa della democrazia e l’assetto multilaterale, ma quest’ultimo è in grado di tollerare regimi politici diversi, se ben congegnato. La fotografia dei membri dell’assemblea generale dell’Onu, tra l’altro», spiega ancora, «ci offre un panorama in cui molti dei Paesi appaiono sistemi quantomeno ibridi: autoritarismi competitivi, “democrature”, regimi in transizione, Stati che si stanno riprendendo da guerre civili o processi di riconciliazione. Pertanto bisogna evitare dicotomie e scorciatoie. Il punto chiave è che ci sia un’istanza in cui tutti possano riconoscersi vicendevolmente attorno a quello che io chiamo il “grado zero” della cooperazione internazionale, cioè dove ci sia almeno la possibilità di una coesistenza pacifica. Non basta per rispondere ai bisogni dell’umanità di oggi, ma è già un primo passo».

E in un rilancio del multilateralismo un ruolo «fondamentale» può averlo la Chiesa, con le sue organizzazioni e le sue reti: essa «lavora su “obiettivi di contesto”, tanto più importanti in quanto aiutano a modellare l’ambiente e il discorso politico internazionale, indirizzandoli affincché servano veramente al soddisfacimento dei bisogni di popoli e persone e allo sviluppo umano». È, questa, anche una funzione di «coscienza critica dell’umanità, che è assente oggi, in un momento in cui l’ideologia della realpolitik sembra prevalere su tutto», conclude Ferrara.