La speranza,

Nei messaggi da tutto il mondo a Leone XIV, subito dopo la sua elezione, una delle parole che è risuonata di più è stata “speranza”. La pace che il nuovo pontefice ha evocato più volte nel suo primo messaggio, per il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella è “la speranza dell’umanità intera”. La Porta Santa aperta alla fine del 2024 da Papa Francesco inaugurando il Giubileo ci incoraggia a farci “pellegrini di speranza”.
Ma cosa significa realmente sperare oggi, in un mondo che oscilla tra cinismo, rassegnazione o, in qualche caso, facili ottimismi?
La speranza non è fuga dal presente né dal mondo reale: è piuttosto una “brama intensa del futuro”, come scrive Jürgen Moltmann nel suo “Teologia della speranza”.
Non coincide nemmeno con le aspettative, che sono in realtà mere proiezioni delle nostre ambizioni e aspirazioni, destinate per lo più a tramutarsi in delusioni.
L’etimologia ci viene in soccorso: la radice sanscrita spa significa “tendere verso una meta”, sporgersi, sbilanciarsi, protendersi oltre se stessi e la contingenza del momento. È oltrepassare.
La speranza è un movimento che si compie senza certezze, sostenuto dalla fiducia e dalla risonanza che il bene produce in noi. Possiamo sperare perché abbiamo già sperimentato qualcosa di buono, perché avvertiamo che il bene, in noi, risuona più forte del male.
Non è razionale la speranza, non dipende da calcoli di costi e benefici o da puntelli esterni. È uno slancio che nasce dall’interno, dalla fiducia nella possibilità del bene. Papa Francesco nell’enciclica “Fratelli tutti” la descrive come radicata nel profondo di ogni essere umano: “un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito… La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale…per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa”.
Senza speranza non c’è libertà. La sua mancanza restringe gli orizzonti, ci consegna ai pregiudizi, chiude il futuro, spegne la solidarietà. Non a caso, seminare sfiducia è una strategia di dominio troppo frequentemente praticata. L’ossessione contemporanea per la “sicurezza” soffoca la speranza, riducendo la vita a mera sopravvivenza biologica e rimpicciolendo i nostri orizzonti fino a farli coincidere con le nostre bolle protettive. Ma così si soffoca!
Non cediamo al corteggiamento di diffidenza, disillusione e disincanto, anche quando tutto sembra impossibile. Come scrive la poetessa Margherita Guidacci: «Non obbedire a chi ti dice di rinunziare all'impossibile! L'impossibile solo rende possibile la vita dell'uomo».
Non speriamo solo per noi. «Abbiamo l’obbligo morale di non lasciar morire la speranza in noi, per farla rinascere in chi l’abbia perduta», ci ricorda lo psichiatra italiano Eugenio Borgna. Dare voce ai percorsi di speranza ci apre oltre noi stessi, verso il riconoscimento della solidarietà con gli altri e con le generazioni future. Senza speranza, infatti, perché seminare? Perché impegnarsi? Come diceva Papa Giovanni XXIII: «Non consultarti con le tue paure, ma con le tue speranze e i tuoi sogni. Non pensate alle vostre frustrazioni, ma al vostro potenziale irrealizzato. Non preoccupatevi per ciò che avete provato e fallito, ma di ciò che vi è ancora possibile fare».
La speranza è “passione per il possibile”, scriveva il filosofo Søren Kierkegaard. Una passione che oppone al primato della necessità la forza dell’immaginazione. Se non impariamo l’arte di guardare al di là di ciò che è già presente, o che si può prevedere sulla base di ciò che è dato, non saremo mai liberi. La poetessa statunitense Emily Dickinson lo esprime con delicatezza: «Non sapendo quando l’alba arriverà, tengo aperta ogni porta».
Allora si può respirare, con la fiducia di una pienezza che ci attende. Si chiama “salvezza”, e riguarda la nostra integralità: non solo la sopravvivenza biologica, ma la dignità, la libertà, lo spirito che ci anima, il senso del nostro esistere.
Chi dà la propria vita per altri non è “sicuro” ma è “salvo”.
La speranza è desiderio di salvezza, non di sicurezza. Cercare sicurezza significa rincorrere il mito del “rischio zero”. Ma senza rischiare non si vive e senza speranza non si rischia. Solo chi spera può guardare in faccia la morte per amore della vita. Come scrive Georges Bernanos: «La speranza è un rischio da correre. È addirittura il rischio dei rischi».
La speranza è una forza rivoluzionaria che scaturisce dal profondo desiderio dell’essere umano di non essere passivo e manipolato: un desiderio continuamente soffocato dalle paure indotte. È una virtù, non un generico afflato emotivo. Esige il coraggio di affrontare le sfide, piuttosto che limitarsi a difendersi. Cambiare lo status quo, lottare contro le ingiustizie, abbattere i muri sono movimenti complessi che fioriscono e si sostengono solo grazie a questa virtù.
Non è una collezione di buoni sentimenti, né appannaggio delle anime belle. Non sfugge alla prova della realtà, ma richiede di coltivare un saper fare, un saper vivere, un saper pensare.
La speranza è profondamente diversa dall’ottimismo. Come scrive Thomas Merton, scrittore e monaco cristiano, «la perfetta speranza si acquista sull’orlo della disperazione». Non è la convinzione che tutto andrà bene, ma la certezza che ciò che facciamo ha un senso, indipendentemente dall’esito finale, come affermava Vaclav Havel. L’ottimismo rimuove ogni negatività, non conosce il dubbio e l’angoscia; la speranza non li rimuove, ma non se ne lascia schiacciare.
È un movimento di ricerca, un’apertura verso ciò che non è ancora venuto al mondo, oltre la prigione di un tempo chiuso.
Chi perde la speranza odia la vita: e questo è tragicamente evidente nelle forme distruttive che affliggono la vita sociale contemporanea. «Sperare è una condizione essenziale dell’essere umano; se rinuncia a ogni speranza ha lasciato alle sue spalle la sua stessa umanità», scrive il filosofo coreano Byung-chul Han.
Un mondo senza speranza diventa cinico e disumano. «L’uomo ha combattuto per la libertà e la felicità, ma inizia un’era in cui l’uomo cessa di essere umano e si trasforma in una macchina che non pensa e non sente», avverte Erich Fromm.
L’antidoto a diventare simili alle macchine e ai dispositivi che abbiamo costruito è la speranza, che alimenta l’attivazione, l’iniziativa anziché la passività.
Chi si muove sulla spinta della speranza sa che non è nel compimento dell’opera la fondamentale ricompensa, ma nel processo cui si dà inizio, nel cammino che, camminando, si apre. L’avvenire non è già scritto: per Moltmann la speranza non tende a “gettar luce sulla realtà esistente, ma su quella veniente”, e “non conduce l’uomo a conformarsi alla realtà data, ma lo coinvolge nel conflitto tra esperienza e speranza” chi coltiva la speranza non si adatta, non si rassegna “al fatto che il male generi sempre altro male”.
La speranza è paradossale. Richiede umiltà e ascolto, ma anche capacità di coinvolgimento e iniziativa. La speranza non è né passiva né attiva: è “deponente”. «Non è né passiva attesa né irrealistica forzatura di circostanze che non possono avverarsi. Sperare significa essere pronti in ogni momento a ciò che ancora non è nato», scrive Fromm.
In un mondo frammentato, dove trionfano l’individualismo esasperato che diventa “egocrazia”, la mancanza di speranza alimenta l’egoismo quando non arriva a giustificare l’odio. Viceversa, la speranza riconnette, riconcilia: «Il soggetto della speranza è un noi», afferma Byung-chul Han.
Senza speranza il vivere diventa sopravvivere, adattarsi a ciò che già esiste cercando tutt’al più piccole isole di comfort che riproducono l’identico, e alla fine ci spengono.
La speranza ci sottrae al divenire e ci regala l’avvenire: ci rende capaci di divincolarci dalla tirannia di un tempo chiuso, per trasformare il divenire prevedibile in un avvenire inaudito. «Chi spera diventa ricettivo del nuovo», perché «la speranza è l’ostetrica del nuovo», scrive Byung-Chul Han.
In fondo, vivere è sperare.
Camminiamo dunque nella speranza, sul cammino che Papa Francesco ci ha lasciato in eredità: «Continuate a coltivare sogni di fraternità e a essere segni di speranza!».
di Chiara Giaccardi