L’emersione nelle società di movimenti per il diritto all’esistenza pacifica di entrambi i popoli

L’obiezione di coscienza
nella guerra a Gaza

An Israeli soldier gestures after pushing away Palestinian farmers and foreign activists, preventing ...
28 maggio 2025

di Roberto Cetera

L’immagine, di 50 anni fa, dei sud-vietnamiti che cercano di salire sull’elicottero americano che si alza in volo dal tetto dell’ambasciata Usa di Saigon è divenuta l’icona della sconfitta subita in Vietnam dalla più grande potenza militare al mondo. Una sconfitta generata da molte cause, ma tra queste sicuramente rilevò un “nemico” interno, cioè la forte opposizione alla guerra che si generò negli Stati Uniti dalla fine degli anni ’60. Opposizione espressa non solo dalle grandi manifestazioni a Washington, ma soprattutto dal crescente fenomeno della renitenza alla leva per obiezione di coscienza. Furono almeno 40.000 i giovani americani che preferirono disertare piuttosto che combattere contro i vietcong. E il loro esempio è divenuto fondante la cultura giovanile mondiale degli anni ’70 del secolo scorso. Il caso forse più famoso fu quello di Muhammad Alì, che per essersi sottratto alla leva venne arrestato nel 1967, e anche privato del titolo di campione mondiale dei pesi massimi. La debacle americana cominciò con gli obiettori di coscienza.

Ron Finet è un capitano di Ifd, l’esercito israeliano, un riservista. Ufficiale di un esercito fondato sui riservisti; sarebbero circa 300.000 gli israeliani che possono essere richiamati in servizio fino ai 40 anni (45 per gli ufficiali). Ron Finet è stato punito con 20 giorni di arresto per essersi rifiutato di servire ulteriormente nelle file dell’esercito, dopo aver combattuto per ben 270 giorni a Gaza. Al magazine Ynet ha dichiarato: «Ho servito nella riserva per molti mesi, interrompendo la mia vita civile e rischiando la vita ogni giorno. Sono sorpreso da questo provvedimento sproporzionato e senza precedenti, sono scioccato da questa guerra senza fine, dall’abbandono degli ostaggi e dalla morte senza tregua di innocenti». L’esercito ha replicato che Finer ha abbandonato «per ragioni politiche che non hanno spazio nell’esercito. Per questo è stato condannato e punito».

Secondo Meron Rapoport, giornalista israeliano della rivista +972, il caso Finet è tutt’altro che isolato «per quanto nessuno abbia cifre precise, ma già dando uno sguardo ai social network appare chiaro che l’esercito israeliano sta attraversando la più grave crisi interna degli ultimi decenni». Già prima dell’inizio della guerra, durante le manifestazioni contro la riforma della giustizia voluta dal premier Netanyahu, il tema dell’obiezione dei riservisti era venuto alla ribalta, tanto da indurre il capo dello Shin Bet (il servizio segreto interno) ad avvertire che sarebbe potuto divenire un pericolo per la sicurezza nazionale. Poi dopo il 7 ottobre la questione si era affievolita, e anzi il numero di richieste di volontari era aumentato. Ora dopo 20 mesi di guerra la riluttanza a combattere a Gaza è divenuta di nuovo diffusa. Sono sorte anche delle associazioni di soldati obiettori come “Soldiers for Hostages” (a cui aderisce il capitano Finet) o l’associazione “C’è un limite”). In questi ambienti c’è chi si spinge a sostenere che quasi il 40% dei riservisti si sarebbero ritirati dal conflitto, che in numeri assoluti sarebbero circa 100.000 unità, ma, come si è detto, è impossibile avere cifre certe sul fenomeno. Quello che appare dall’esterno è che il fenomeno dell’obiezione abbia diverse coloriture e spiegazioni. Probabilmente la percentuale di coloro che si astengono dai combattimenti per motivi politici o etici è oggi una piccola minoranza. La maggior parte degli obiettori è piuttosto motivata dalla stanchezza di una guerra che dura ormai da troppo tempo, e che non lascia ancora intravedere un esito finale. Essere chiamati dalla riserva significa rimanere lontani per mesi dalla propria famiglia, lasciare il lavoro (che soprattutto per un self employed è un problema serio), oltre che porre a rischio la propria vita, e dover sperimentare un coinvolgimento anche emotivo davanti alle crudeltà della guerra, che lascia ferite psicologiche indelebili.

Non è dato sapere quanto un analogo rifiuto a partecipare alla guerra sia diffuso tra i giovani palestinesi arruolati da Hamas, ma è facile immaginare che un’uguale insubordinazione non verrebbe certo sanzionata solo con 20 giorni di prigione, ma esporrebbe a punizioni drammatiche come le esecuzioni comminate ad alcuni dei partecipanti alle manifestazioni anti-Hamas nella Striscia del mese scorso.

Rimane il fatto che la fine della guerra - nel deficit corrente di risultati diplomatici - passa oggi soprattutto attraverso l’emersione in entrambe le società di movimenti interni contro la guerra e per il diritto all’esistenza pacifica di entrambi i popoli.