La testimonianza di un ex detenuto che incontrò Bergoglio a Roma nel 2016

Quella luce nel buio del carcere

 Quella  luce  nel buio del carcere  QUO-117
21 maggio 2025

di Claudio Bottan*

C’ero anch’io accanto a Papa Francesco il 6 novembre 2016, Anno Santo della Misericordia, e non potrò mai dimenticarlo. Don Silvano, il cappellano del carcere di Busto Arsizio a cui mi legava ormai un rapporto fraterno di amicizia, ci aveva preannunciato che alcuni di noi sarebbero stati scortati a Roma per assistere alla celebrazione del Giubileo dei carcerati. Avremmo potuto farlo da una posizione molto vicina al Pontefice, ci aveva promesso “il don”. Nessuno tra gli undici “prescelti”, tuttavia, si sarebbe mai aspettato di trovarsi faccia a faccia con Francesco e, men che meno, accanto a lui come chierichetto. Abbiamo assistito il Pontefice nella fase di vestizione poi siamo entrati in processione e abbiamo preso posto ai piedi dell’altare cercando di reggere all’emozione. «Ogni volta che entro in un carcere mi domando: “Perché loro e non io?”». Le parole pronunciate da Papa Francesco hanno spalancato i cuori, ma hanno anche contribuito ad accrescere la commozione dei chierichetti-galeotti: ricordo ancora di essere inciampato in mondovisione mentre mi avvicinavo al Pontefice per versare l’acqua, ma ho trovato una mano pronta a sorreggermi e un sorriso tranquillizzante.

Oggi, chi ha avuto il privilegio di incrociare sul proprio cammino lo sguardo di quell’uomo “venuto dalla fine del mondo” non può che aggrapparsi alla speranza per vincere la malinconia, il senso di solitudine e il vuoto che lascia la scomparsa di una figura che ha rappresentato un punto di riferimento. Tanto più profondo è il vuoto per chi ha avuto l’opportunità, come è capitato a me, di stare vicino a Francesco anche una seconda volta a distanza di qualche anno quando avevo finito di scontare la mia pena. Nella lettera indirizzata al Papa, scritta durante la pandemia, chiedevo di poterlo incontrare di nuovo insieme a Simona, la donna che mi aveva rivoluzionato la vita.

Si è aperta la porta, è entrato in quel salottino di Santa Marta dove ci avevano fatti accomodare. Da solo, senza tanti convenevoli, sorridente, e con quell’andatura ciondolante a causa dell’artrosi che lo rendeva ancora più umano, fratello e vicino. «Come state?». Papa Francesco mi ha abbracciato, poi ha allungato la mano verso quella di Simona e ha intuito immediatamente che quelle braccia non si sarebbero mosse a causa della sclerosi multipla. Si è seduto di fronte a noi e ha ascoltato. Mezz’ora di lacrime e sorrisi; racconti di vite che si intrecciano e arrancano guardando oltre le difficoltà del quotidiano. «Io non credo — aveva premesso Simona — ma ovunque nel mondo durante i miei viaggi in carrozzina ho incontrato persone che mi hanno assicurato le proprie preghiere». «Pregate per me» è stata la raccomandazione finale di Bergoglio mentre ci accompagnava verso l’uscita.

Da qualche anno Simona ed io incontriamo gli studenti di scuole e università lungo la Penisola per parlare di disabilità e carcere, di diritti, pregiudizi e speranza nel futuro. In un certo senso è la nostra preghiera laica, per non spezzare la catena del bene e dare un senso alla sofferenza.

*Ex detenuto, vicedirettore
della rivista «Voci di dentro»