Il racconto del sabato

Nightswimming

 Nightswimming  QUO-114
17 maggio 2025

di Cristiano Governa

Nightswimming,
deserves a quiet night,
I’m not sure all these people understand...
(Nightswimming, R.E.M.)

Minneapolis (Minnesota), 18 gennaio 2013

«Vuoi spiegare la vita a un ragazzo? Buttalo in acqua, fai di lui un nuotatore. Una volta nella vasca capirà immediatamente che le possibilità di vivere sono solo due: in lunghezza o in profondità. Superficie o abisso...».

Ricordi coach? Io non capivo bene dove volessi andare a parare, eppure eppure è così che dicevi quando venivi in spogliatoio dopo l’allenamento.

Aspettavi che accendessi il phon per iniziare a parlare... «Io lo so che è più forte di te» dicevi sistemandomi le cose nella borsa «che ti annoia la superficie e vuoi andare là sotto. Ma è in superficie che si vince e io posso solo insegnarti a vincere».

Poi tacevi fino alla macchina.

Mi piaceva tornare a casa in auto al tuo fianco, l’inverno è fatto per guardare la città dai finestrini.

Ad un certo punto riprendevi il discorso: «Io sono solo bravo» dicevi quasi scusandoti «se fossi il migliore, il migliore di tutti intendo, oltre a insegnarti quello che so, ti insegnerei anche il momento giusto in cui dimenticarlo...».

Dicono che la vittoria sia frutto di fatica, per me vincere è la cosa più semplice, basta allenarsi.

E vivere? Lì allenarsi non serve, è come se i giorni e lo scorrere del tempo non rispondessero alla disciplina della fatica, bensì a un guizzo inatteso, una forma di talento che puoi imparare solo da te. E lui, te stesso, è là sott’acqua che ti aspetta.

Cos’è che fanno i bambini appena riemergono dall’acqua? Sorridono, come se avessero visto qualcosa.

Da adulti la faccenda non cambia, nessuno è mai riemerso uguale a prima. Mi avessi visto stasera coach, saresti stato orgoglioso di me, ho nuotato proprio come mi chiedevi tu.

«Il respiro: dimentica tutto e pensa solo al respiro...» era questo che mi chiedevi all’inizio dei nostri allenamenti a Minneapolis.

Ricordi? Con la neve, filavo più veloce.

Nuotare con trenta gradi sottozero è come appartenere ad una setta, mentre la neve scendeva oltre le vetrate avvertivo una strana forma di calore, quasi un riparo, e andavo giù con la faccia a mezzo metro dal fondo della vasca.

In profondità mi sembrava di rincasare e accendere la luce in corridoio, a volte la tua voce mi raggiungeva e ti sentivo imprecare: «Dove vai?».

Era il mio difetto maggiore, scendevo troppo sotto il pelo dell’acqua, ma forse questo è il momento di chiarirti perché mi comportavo così.

A volte durante gli allenamenti avvertivo una strana sensazione, un’irrefrenabile attrazione per la profondità.

Come se mi fosse caduto qualcosa di tasca e dovessi andare giù per recuperarlo Sentivo che là sotto, nascosta da qualche parte, c’era una sorta di botola o passaggio segreto che, una volta raggiunto, mi avrebbe collegato a tutti coloro che avrei avuto voglia di vedere.

Era il mio modo di nuotare fino a raggiungerli.

Papà a Chicago, alla guida dello scuolabus. Il suo cesto col pranzo. I nonni, nella casa in Oregon, seduti nelle due poltrone identiche e l’odore di vecchi che mi avvolgeva appena entravo in casa loro.

La zia Greta, quel suo frugare negli armadi della mamma, lamentandosi per la sua vita «poco cristiana».

I miei amici al liceo, soprattutto Bill e il guantone che si comprò dopo un’estate a vendere gazzosa allo stadio del baseball.

E infine la dolce Mary, che poi, a ripensarci, di dolce aveva una sola parola: «sì».

Certe volte, scendendo fino al fondo della vasca, sentivo addirittura la presenza di Sara.

Quanta gente c’è lì sotto...

Ascolta coach, stasera qua a Bolder c’è stata la gara di qualificazione per i campionati nazionali in Colorado.

Ho provato a concentrarmi, mi sono ricordato tutto quello che mi hai insegnato, metro per metro, fino ad arrivare all’ultimo di quei duecento.

La vasca è stata una passeggiata con te al mio fianco.

Avevi ragione, la partenza è importante, proprio «come accendere il motore», serve a entrare nel ritmo, acclimatare il tuo corpo con l’acqua. Ovviamente anche il rush finale lo è, si tratta di fare quell’ultimo sforzo, quella corsa a fiato fermo e toccare per primi.

«Ma la gara la vinci nel mezzo — mi spiegavi — quando nessuno si accorge di te» e continuavi: «C’è un punto della gara in cui è come se fossi là fuori, fra la gente, e il nuoto non c’entra. Nessuno si ricorda più se hai fatto un buon tuffo di partenza e ci hai dato dentro con le gambe e, allo stesso tempo, a nessuno viene in mente che potresti avere i polmoni per chiudere la gara meglio di tutti gli altri. Non sospettano che tu possa farcela... ed è questo il tuo vantaggio. In quel punto, in quei minuti fra la partenza e la volata finale, devi misurare i tuoi sogni e le tue paure, perché se corri troppo o se rallenti troppo sballi il ritmo del respiro. E se respiri male perderai».

Eppure, anche oggi che la gara contava, l’ho fatto ancora.

Ad un certo punto mi ha preso la tentazione di stare troppo sotto, virando addirittura con la pancia quasi vicina al fondo.

Però stavolta non è stata colpa mia, ne avevo proprio bisogno.

La settimana scorsa ero al mercatino di libri usati dove qualche volta, la domenica, andavamo insieme.

Lo sai, tu cercavi solo Faulkner, sempre e solo lui.

«Avete Faulkner?» domandavi alla ragazza del banchetto, che altrettanto puntualmente sorrideva e ti rispondeva: «Abbiamo tutto di Faulkner e anche lei... Non è uscito nulla di nuovo durante la settimana...». Non ho mai capito perché domandassi libri di un autore di cui avevi già tutto.

Cosa cercavi, coach?

Speravi che Faulkner scrivesse dall’aldilà solo per te?

Ero lì che gironzolavo per i tavolini e mi è capitato in mano il volume di una poetessa inglese che si chiama Katherine Pierpoint.

Ti sarebbe piaciuta.

C’era questa poesia che si chiama Swim Right Up to Me.

Inizia con una madre che insegna alla sua bambina piccola a nuotare in salotto, sdraiata con la pancia sullo sgabello a pochi centimetri dal tappeto.

La bambina descrive le sue lezioni di nuoto e la dolce meticolosità della madre, intravista fra le gambe di uno sgabello e a questo punto indovina cosa ricorda degli insegnamenti di nuoto domestici?

 

 

Ho imparato a nuotare a casa, nello studio di mio padre, sullo sgabello del piano, piantato nel mezzo del tappeto. Lo stomaco su, la testa giù, braccia e gambe a mulinare con intensità; (...)

Una veduta dall’alto attraverso quattro tese gambe di legno, sulla stessa piccola parte di tappeto.

Mia madre mi stava di fronte, battendo un ritmico richiamo; quasi camminando all’indietro per farmi nuotare sino a lei, ricordandomi di respirare;

e passandomi la mano sui capelli e sugli occhi

mentre io nuotavo e nuotavo sopra il mobilio contro una corrente che montava,

le guance rosse, concentrata sulla spinta,

già pensando che poi avrei imparato a volare, facile, oltre il tavolo della cucina, persino.

Oltre il muretto del giardino.

 

 

Ancora la faccenda del respiro, la tua ossessione. A proposito di respiri, sai a cosa ho pensato domenica mattina in quel mercatino di libri usati? A te e alla mamma.

Scusa la franchezza, so che non dovrei mai mischiare il personale con lo sport, ma non ho mai capito perché tu e lei vi siate lasciati.

Dopotutto eravate due perfette creature di questi posti: lei ormai era una donna sola che ogni tanto beveva qualcosina e aveva deciso di rimettersi in forma.

Diciamo che lo aveva deciso una dozzina di volte, ogni due o tre mesi, in quanto a te, coach, eri un tranquillo vedovo del Midwest. Uno di quelli che aveva già amato ed era già stato amato, l’uomo perfetto al fianco del quale morire.

Sareste passati inosservati, proprio come me nel mezzo di una gara. Ma forse ho capito cosa è successo.

Se il mio compito era ricordarmi di respirare, magari il vostro era quello di dimenticarvene.

Questa è solo una mia interpretazione, sia chiaro.

Adesso veniamo al motivo principale per cui ti scrivo questa sera, appena rientrato nel mio albergo.

No, non ho vinto oggi.

Però, come ben sai, per le finali nazionali si qualificavano in tre e a quanto pare solo due nuotatori hanno respirato meglio di me.

Sono dentro, coach.

Il prossimo agosto potrei fare la valigia e andare a Denver a giocarmela con gli altri nuotatori.

Immagino che saresti orgoglioso di me, della strada che ho fatto dalla nostra piscina di Minneapolis.

Ma io non andrò.

Sono sicuro che fra un po’ di tempo, un sacco di gente penserà di conoscerne il motivo.

Ma io lo voglio dire solo a te, ricordi l’altro mio vecchio vizio?

Nuotare di notte, convincere il custode ad aprire la piscina solo per me. L’ho fatto anche tre mesi fa, una domenica sera, quando l’impianto della polisportiva è chiuso.

Matt, il custode, è sempre stato gentile con me, uno che fa poche domande.

Si prende la bottiglia di Talisker che gli lascio in guardiola e mi allunga le chiavi: «Se muori sono affari tuoi» mi dice sorridendo; è il suo modo per dire «stai attento».

Ho nuotato per una quarantina di minuti, come al solito. Lo faccio sempre prima di partire per le qualificazioni ai campionati nazionali.

E adesso non arrabbiarti, coach; sono scivolato. Faceva un freddo cane fuori dalla vasca, e allora ho corso scalzo sul bordo per arrivare alle docce.

Sono caduto.

Non so nemmeno io come, ma a un certo punto un piede è andato per conto suo e ho battuto la tempia sul pavimento. Credo anche di aver perduto i sensi per qualche secondo e quando sono rinvenuto ero in terra, a bordo vasca.

La prima cosa che ho visto riaprendo gli occhi era il punto sugli spalti in cui sedevate tu e la mamma. Non è curioso che forse quella sia l’ultima cosa che ho visto distintamente nella mia vita?

In ospedale, quella notte, mi hanno tenuto dentro in osservazione. La botta è stata fortissima, l’ematoma a seguito del colpo si è riassorbito ma ha leso, in qualche modo, il mio nervo ottico.

Sto diventando cieco, mi avevano detto che probabilmente sarebbe andata così, ed è vero.

Ma sai qual è la cosa buffa? Non è successo tutto in una volta. «Sarà un processo per gradi — ha detto il dottore — non posso dirti quanto ci vorrà».

Il fatto è che io ci vedo ancora ma, giorno dopo giorno, sempre un po’ meno. Mi vedo non vedere più, capisci?

Ieri sera (maledizione, proprio prima delle qualificazioni) il peggioramento ha avuto un’accelerazione.

Stamattina faticavo a mettere a fuoco gli oggetti, avevo dei momenti di quasi buio alternati ad altri dove distinguevo abbastanza bene le forme.

Se ti sto scrivendo, pur con immensa fatica, è perché posso ancora farlo ma presto, anche se non so dirti quando con precisione, non sarà più così.

Ma non è questo il motivo per cui non sarò alle finali.

Magari, mi dicevo, da qua ad agosto la vista potrebbe ancora reggere, oppure che ne so, sarò già cieco.

Comunque non è importante, non più.

Il fatto è che stasera, mentre ero in vasca, per alcuni secondi non ho visto più nulla. Non so quanto sia durato, forse quattro, al massimo cinque secondi.

Tu hai mai nuotato con gli occhi aperti, senza vedere nulla?

Mi scappava quasi da ridere.

Così, prima di toccare con la mano all’arrivo, avevo già deciso: ho chiuso col nuoto, ora penserò solo al nuotare.

Niente più gare, solo io che scendo e cerco «gli altri».

Cercherò anche te, puoi contarci.

Non credo di doverti spiegare molto altro e poi spiegare non serve a niente, non risolve la vita.

Tanto più che, da qualche ora a questa parte, l’unica cosa di cui non riesco a capacitarmi è come sia stato possibile, fino ad oggi, nuotare a occhi aperti.