Parla Luca Raineri, esperto della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa

Nel Sahel la popolazione civile soffre le conseguenze dell’instabilità politica

(FILES) Pro-democracy youth leader Cheick Oumar Diarra (C) chant slogans surrounded by supporters ...
17 maggio 2025

di Beatrice Guarrera

Sono oltre 32 milioni le persone colpite da una complessa e interconnessa rete di crisi, alimentata da instabilità politica e violenza dei gruppi jihadisti. Persone che non trovano spazio nelle cronache delle maggiori testate a livello mondiale. Parliamo di coloro che vivono nel Sahel, la regione dell’Africa subsahariana, estesa tra il deserto del Sahara a nord, la savana sudanese a sud, l’oceano Atlantico a ovest e il Mar Rosso a est. «Quella del Sahel — spiega Luca Raineri, ricercatore in Studi di sicurezza alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa — è una regione caratterizzata da gravissime vulnerabilità. Innanzitutto è la regione del mondo che comprende gli Stati più poveri del pianeta. È anche una zona profondamente afflitta dal cambiamento climatico in un’area soggetta a surriscaldamento globale, a progressivo inaridimento dei suoli».

In questo contesto insiste da oltre quindici anni una crisi securitaria gravissima, di cui possono rintracciarsi diversi vettori che hanno a che vedere con la presenza di gruppi jihadisti, ma anche con una diffusa corruzione, con la presenza di gruppi criminali e trafficanti di ogni genere. «La domanda di sicurezza, di maggiore autorevolezza degli Stati — continua Raineri — ha portato a dei colpi di stato militari che hanno esautorato le autorità civili, elette democraticamente». Anche se in questo contesto gli standard democratici sono diversi da quelli, per esempio, europei, si tratta in ogni caso di «giunte militari che inizialmente sono state acclamate dalla popolazione e che effettivamente sono state in grado di manovrare il consenso popolare, anche in virtù di una abile strategia di comunicazione». Hanno però poi «esibito un carattere sempre più autoritario, dittatoriale, di cui l’ultima illustrazione, ad esempio, è lo scioglimento d’autorità di tutti i partiti politici del Mali». Questi governi sono formalmente chiamati “di transizione”, ma di fatto non prevedono ancora una data di scadenza. «Ci si trova dunque — osserva il ricercatore — in una situazione di gravi lesioni dei diritti umani, di sparizioni forzate, di disciplinamento sempre più rigido della società civile, dei media liberi».

Gli Stati principalmente coinvolti sono quelli del Sahel centrale, come il Mali, il Burkina Faso e il Niger, anche se in questo momento la crisi sta minacciando tutti i Paesi confinanti, come il Benin e il Togo, ma si sono verificati attacchi in passato anche in Costa d’Avorio e in Mauritania. «Le notizie degli ultimi mesi segnalano crescenti preoccupazioni e tensioni anche ai confini con altri stati come il Senegal, la Guinea, il Ghana, la Nigeria e questo fa temere un effetto incendiario di spillover in tutta la regione — asserisce Raineri — nonché il rischio di una connessione fra i due focolai di insicurezza in Africa occidentale: quello del Sahel e quello del lago Ciad, dove da anni esistono i fenomeni che siamo stati abituati a chiamare Boko Haram, ma che oggi rientrano a pieno nella gravitazione dello Stato Islamico».

Va ricordato che l’insicurezza nell’area è largamente legata alla presenza di gruppi jihadisti che possono essere classificati in due grandi sigle, come spiega il ricercatore. Il primo è quello dei gruppi che hanno dichiarato fedeltà ad Al-Qaeda e che quindi discendono in linea diretta da quello che un tempo si chiamava Al-Qaeda nel Maghreb islamico, ovvero Jnim. Si tratta di un gruppo salafita radicale «che sposa una dottrina insurrezionale jihadista e che è presente in tutto il Mali, particolarmente in Burkina Faso — che anche quest’anno si qualifica per essere lo stato al mondo più colpito dal terrorismo internazionale — e che dal Burkina Faso sta estendendo la propria influenza anche al Togo e al Benin». In secondo luogo è presente nella regione, come si accennava in precedenza, anche lo Stato Islamico. «Dalla sconfitta del presidio territoriale in Medio Oriente che risale al 2019, lo Stato Islamico ha adottato una strategia di rafforzamento delle proprie propaggini provinciali e di sempre maggiore integrazione globale di queste propaggini provinciali», afferma Raineri: «In questa strategia l’Africa riveste un ruolo centrale e soprattutto l’Africa occidentale. Per cui troviamo in Africa occidentale due gruppi. Uno che è proprio la provincia del Sahel dello Stato islamico (Issp), che è andata rafforzandosi in questi ultimi anni nell’area compresa al confine tra Mali, Niger e Burkina Faso». Il secondo gruppo è quello della zona del lago Ciad e che ha ereditato quella che è stata la dinamica di Boko Haram. «Queste due province dello Stato islamico in questi mesi stanno effettivamente, sembrerebbe, ricongiungendo le proprie propaggini nell’area nord-occidentale della Nigeria».

Le popolazioni civili degli Stati saheliani sono naturalmente le prime che subiscono le conseguenze di questa situazione sempre più instabile. In nazioni rette da giunte militari, sono comuni pratiche di limitazione della libertà di espressione, di associazione e di informazione. Alcuni Paesi della regione, inoltre, «non esitano ad adottare delle politiche vessatorie nei confronti di alcuni gruppi etnici sospettati in blocco collettivamente di essere complici dei gruppi jihadisti — racconta Raineri — e che quindi subiscono fortissime repressioni, violenze, sparizioni forzate e in alcuni casi veri e propri massacri da parte delle forze governative». D’altra parte i gruppi jihadisti attuano le stesse tattiche barbare nei confronti della popolazione civile sospettata di collaborare con il governo. «Le conseguenze più nefaste si verificano in quei Paesi che hanno deciso di arruolare forzosamente la popolazione civile all’interno di milizie filo-governative. Questi corpi paramilitari, in più di un’occasione si sono lasciati andare a regolamenti di conti interetnici, che non hanno fatto altro che decretare un ulteriore escalation di violenze». Così, conclude Raineri, «i gruppi jihadisti hanno avuto buon gioco nel presentarsi come i protettori della popolazione che subisce le vessazioni dei propri governi e dei gruppi etnici paramilitari affiliati ai governi». Una situazione incandescente che in molti contesti rischia di esplodere, con conseguenze ancora più drammatiche per le popolazioni degli Stati saheliani.