Suor Linah Siabana, delle Missionarie di Nostra Signora d’Africa, cura i traumi
dei rifugiati sud sudanesi in Uganda

«Mi ricordi che sono ancora un essere umano»

 «Mi ricordi che sono ancora un essere umano»  QUO-113
16 maggio 2025

di Helen Kasaka

Suor Linah Siabana, specialista in salute mentale con le Suore Missionarie di Nostra Signora d’Africa, presta servizio presso le comunità sud sudanesi sfollate nella diocesi di Arua, in Uganda. Fa parte della missione della sua congregazione essere «una presenza guaritrice e consolatrice»; porta assistenza, istruzione e speranza ad alcuni dei rifugiati più trascurati del mondo. Negli ultimi cinque anni la religiosa ha lavorato negli insediamenti vicino al confine con il Sud Sudan, aiutando a ricostruire le vite sradicate dal conflitto.

L’Uganda, che ospita quasi 1.700.000 rifugiati, è elogiata per la sua politica delle porte aperte. Ma il sottofinanziamento cronico, il sovraffollamento e i cambiamenti politici da parte delle agenzie umanitarie hanno messo a dura prova il sistema. «Gli insediamenti qui sono pieni di donne, bambini e anziani che hanno perso tutto», ha affermato suor Linah. Il solo distretto di Adjumani ospita oltre 54.000 rifugiati. «Le famiglie stanno crollando», dichiara.

Suor Linah è arrivata nel 2019. Nel 2022 per un anno ha condotto una valutazione dei bisogni negli insediamenti di Maaji e Agojo, lavorando con i leader locali e imparando le lingue del luogo per comprendere le difficoltà dei residenti. Ha scoperto traumi diffusi, istruzione interrotta e fragile convivenza tra rifugiati e comunità ospitanti. In risposta, ha ottenuto borse di studio, ha avviato corsi di formazione professionale e organizzato sessioni di terapia. «L’assistenza spirituale ricostruisce la resilienza», ha affermato: «Essa aiuta i rifugiati a elaborare la perdita, a trovare uno scopo e a riconnettersi con la speranza». La domenica guida i servizi liturgici sotto un albero di mango per coloro che non possono raggiungere una chiesa. Quando le razioni di cibo sono state tagliate, il suo team ha distribuito forniture di emergenza alle famiglie con bambini e agli anziani con disabilità.

In una tenda buia, suor Linah si è inginocchiata accanto a una donna che non dorme da settimane. «Gli incubi non si fermeranno», ha sussurrato la rifugiata. «Non stanno fuggendo solo dalla guerra», afferma la religiosa: «È lo stress quotidiano della sopravvivenza qui». In qualità di responsabile della salute mentale del team, affronta le ferite emotive causate dall’abbandono, dalla fame e dall’isolamento. Un recente cambiamento della politica dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ha escluso alcuni rifugiati dalle liste alimentari, peggiorando le condizioni. «Quando forniamo prodotti di base come il cibo, i tassi di suicidio diminuiscono. È così semplice», ha osservato. Lavorando con il Refugee Welfare Council, suor Linah identifica le famiglie vulnerabili attraverso le visite a domicilio. «Sono grati solo di essere visti», sottolinea: «Una donna anziana mi ha detto: “Mi ricordi che sono ancora un essere umano”».

Le tensioni persistono tra i gruppi etnici e con le comunità ospitanti. «Non siamo solo operatori umanitari, siamo mediatori», spiega suor Linah Siabana. Il suo team promuove la pace attraverso il dialogo, anche se per necessità supera le risorse e le partnership disponibili. Oltre i campi, la religiosa fa da mentore a giovani suore nel distretto di Adjumani, offrendo workshop sulla salute mentale e la formazione spirituale. «Le giovani suore desiderano una guida ma i consulenti qualificati sono scarsi», ha evidenziato. Le sfide dei viaggi e le infrastrutture limitate complicano il lavoro ma lei rimane impegnata: «Ogni incontro è un terreno sacro, un’opportunità per riflettere l’amore di Cristo».

Per suor Linah la missione è personale. «Camminiamo con i rifugiati e vediamo Gesù nella loro sofferenza», dice: «Le sfide, la fame, le lacrime, riaccendono il nostro scopo: guarire, consolare e riaccendere la speranza». Mentre l’attenzione del mondo si allontana, il suo messaggio rimane urgente: «Questi non sono numeri. Sono madri, figli, anziani, persone degne di dignità. Non possiamo distogliere lo sguardo».

#sistersproject