Gregario (in salita) nella squadra di Dio

 Gregario (in salita) nella squadra di Dio  QUO-109
12 maggio 2025

di Giampaolo Mattei

Quel 16 maggio 1974 nel cortile di San Damaso in Vaticano c’era anche lui, «profondamente commosso nel vedere san Paolo VI che compie il gesto di dare il via, con la bandierina, a noi ciclisti del Giro d’Italia». A parlare è Gianbattista Baronchelli che proprio in quel Giro, all’esordio tra i professionisti, si classificò subito dopo “il cannibale” Eddy Merckx. Ad appena 12”. «Un tempo davvero esiguo dopo 4000 chilometri, con la famosa tappa delle Tre Cime di Lavaredo: eppure oggi quei 12” restano il simbolo della mia carriera».

Gibì o Tista — com’è chiamato dai tifosi — al Giro d’Italia ha ottenuto un altro secondo posto nel 1978 (a 59” da De Muynch) e un terzo posto nel 1977 (vittoria di Pollentier). Ha un record di piazzamenti importanti. «Ma è sempre mancato qualcosa» confida. Ricordando anche «il secondo posto al Mondiale nel 1980 dietro Hinault». Tante vittorie sfuggite per un soffio, ma nel palmarès ci sono (tra il 1973 e il 1989) 94 vittorie, compresi 2 Giri di Lombardia e 6 Giri dell’Appennino.

«Nel 1974 quel secondo posto a 12” da Merckx l’ho considerato quasi una vittoria. Oggi invece lo ritengo una sconfitta. Non sono mai riuscito a vincere il Giro d’Italia e per questo mi definisco “mezzo campione”». Certo, «ho iniziato a correre tra Merckx e Gimondi, poi ho trovato sulla mia strada tantissimi “mostri”: in Italia c’erano Moser e Saronni».

Nato nel 1953 in una cascina a Ceresara, nel mantovano, oggi vive ad Arzago d’Adda. Nel 1973 ha vinto nella categoria dilettanti il Giro d’Italia e il Tour de l’Avenir. C’è riuscito solo lui. «Da giovanissimo, seguendo mio fratello Gaetano, ho provato l’ebrezza di essere “un super” ma non ho mantenuto le promesse. Gli esperti dicono che ero troppo buono!».

E oggi? «Sono un uomo nuovo per la conversione, per la grazia di aver incontrato Gesù Cristo. Corro la mia “volata” verso la santità, pedalando nella vita verso il cielo». Gibì parla con la concretezza del ciclista che dà del “tu” alla fatica: «Finita la carriera sportiva mi sentivo un fallito, anche il mio matrimonio stava andando in frantumi». Ma «Dio ci ha messo le mani. Ero un credente all’acqua di rose, come tanti. Il mio cammino di conversione, il colpo di fulmine, è arrivato con la morte di mia mamma la notte del 4 aprile 2011. Aveva quasi 90 anni e la sera prima aveva ricevuto la comunione da mio fratello che per questo servizio era abilitato dal vescovo».

Confida: «Alle 4.30 del mattino mi sono avvicinato a mamma per darle l’ultimo bacio. In quel momento ho iniziato la mia nuova corsa, perché lei mi ha “consegnato” la sua fede». Gibì non si nasconde: «Avevo sulle spalle anni di prove difficili che il Signore ha permesso, ne sono certo, perché desiderava che io lavorassi per Lui. Oggi faccio il gregario per il Signore, anche se è sempre Lui a portare le croci più pesanti. Ma io resto un ciclista e so pedalare tra le fatiche».

«Sono il settimo di nove figli, 3 sorelle e 4 fratelli, cresciuti in una famiglia cattolica contadina di origine bergamasca» racconta. «Ho lavorato nei campi da quando avevo 8 anni. Il dono più bello che ho ricevuto dai miei genitori è l’educazione alla fede. Mamma me lo ha ridato come eredità. Ci ha lasciato un testamento spirituale semplice, chiedendoci di restare uniti, avere fede in Dio, pregare, essere devoti a Maria e accostarci ai sacramenti».

Questa «ricetta per la felicità mi ha salvato la vita» continua Gibì. E così «davanti al santissimo ho pregato che il mio matrimonio non si rompesse: oggi la mia famiglia è ancora unita, ho 3 figli e sono un nonno felice».

«Per me oggi la vittoria più bella è che sempre più persone abbiano la grazia di incontrare Gesù. In fondo il ciclismo ha una spiritualità intrinseca. Le salite — il terreno di gara più appassionante — sono sempre un cammino verso l’alto. Ma salire verso l’Alto è incontrare Cristo».