Habemus Papam

Urge la missione dell’annuncio del Vangelo
A nessuno manchi l’opportunità di conoscere e amare Cristo
La Chiesa «sia sempre più città posta sul monte, arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo»: è questo il cuore dell’omelia pronunciata da Leone XIV stamani, 9 maggio, durante la messa pro Ecclesia con i cardinali, presieduta nella Cappella Sistina. All’indomani dell’elezione al Soglio di Pietro, dal nuovo Pontefice è giunto quindi il richiamo all’urgenza di annunciare il Vangelo anche nei contesti più difficili e di «spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscere e amare» Cristo. Pubblichiamo di seguito l’omelia del vescovo di Roma, con una nostra traduzione della parte iniziale improvvisata in inglese.
I will begin with a word in English, and the rest is in Italian.
But I want to repeat the words from the Responsorial Psalm: «I will sing a new song to the Lord, because he has done marvels».
And indeed, not just with me but with all of us. My brother Cardinals, as we celebrate this morning, I invite you to recognize the marvels that the Lord has done, the blessings that the Lord continues to pour out on all of us through the Ministry of Peter.
You have called me to carry that cross, and to be blessed with that mission, and I know I can rely on each and every one of you to walk with me, as we continue as a Church, as a community of friends of Jesus, as believers to announce the Good News, to announce the Gospel.
[Inizierò con qualche parola in inglese e il resto in italiano. Ma voglio ripetere le parole del Salmo responsoriale: «Canterò al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie».
E certamente non solo con me, ma con tutti noi. Fratelli Cardinali, mentre celebriamo questa mattina, vi invito a riconoscere le meraviglie che il Signore ha compiuto, le benedizioni che il Signore continua a effondere su tutti noi attraverso il Ministero di Pietro.
Voi mi avete chiamato a portare quella croce, e a essere benedetto con quella missione, e so di poter contare su tutti e ciascuno di voi perché camminiate con me mentre continuiamo come una Chiesa, come una comunità di amici di Gesù, come credenti ad annunciare la Buona Novella, ad annunciare il Vangelo].
Da qui, in italiano.
«Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16, 16). Con queste parole Pietro, interrogato dal Maestro, assieme agli altri discepoli, circa la sua fede in Lui, esprime in sintesi il patrimonio che da duemila anni la Chiesa, attraverso la successione apostolica, custodisce, approfondisce e trasmette.
Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, cioè l’unico Salvatore e il rivelatore del volto del Padre.
In Lui Dio, per rendersi vicino e accessibile agli uomini, si è rivelato a noi negli occhi fiduciosi di un bambino, nella mente vivace di un giovane, nei lineamenti maturi di un uomo (cfr. Conc. Vat. II, Cost. Past. Gaudium et spes, 22), fino ad apparire ai suoi, dopo la risurrezione, con il suo corpo glorioso. Ci ha mostrato così un modello di umanità santa che tutti possiamo imitare, insieme alla promessa di un destino eterno che invece supera ogni nostro limite e capacità.
Pietro, nella sua risposta, coglie tutte e due queste cose: il dono di Dio e il cammino da percorrere per lasciarsene trasformare, dimensioni inscindibili della salvezza, affidate alla Chiesa perché le annunci per il bene del genere umano. Affidate a noi, da Lui scelti prima che ci formassimo nel grembo materno (cfr. Ger 1, 5), rigenerati nell’acqua del Battesimo e, al di là dei nostri limiti e senza nostro merito, condotti qui e di qui inviati, perché il Vangelo sia annunciato ad ogni creatura (cfr. Mc 16, 15).
In particolare poi Dio, chiamandomi attraverso il vostro voto a succedere al Primo degli Apostoli, questo tesoro lo affida a me perché, col suo aiuto, ne sia fedele amministratore (cfr. 1 Cor 4, 2) a favore di tutto il Corpo mistico della Chiesa; così che Essa sia sempre più città posta sul monte (cfr. Ap 21, 10), arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo. E ciò non tanto grazie alla magnificenza delle sue strutture e per la grandiosità delle sue costruzioni — come i monumenti in cui ci troviamo —, quanto attraverso la santità dei suoi membri, di quel «popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1 Pt 2, 9).
Tuttavia, a monte della conversazione in cui Pietro fa la sua professione di fede, c’è anche un’altra domanda: «La gente — chiede Gesù —, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16, 13). Non è una questione banale, anzi riguarda un aspetto importante del nostro ministero: la realtà in cui viviamo, con i suoi limiti e le sue potenzialità, le sue domande e le sue convinzioni.
«La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16, 13). Pensando alla scena su cui stiamo riflettendo, potremmo trovare a questa domanda due possibili risposte, che delineano altrettanti atteggiamenti.
C’è prima di tutto la risposta del mondo. Matteo sottolinea che la conversazione fra Gesù e i suoi circa la sua identità avviene nella bellissima cittadina di Cesarea di Filippo, ricca di palazzi lussuosi, incastonata in uno scenario naturale incantevole, alle falde dell’Hermon, ma anche sede di circoli di potere crudeli e teatro di tradimenti e di infedeltà. Questa immagine ci parla di un mondo che considera Gesù una persona totalmente priva d’importanza, al massimo un personaggio curioso, che può suscitare meraviglia con il suo modo insolito di parlare e di agire. E così, quando la sua presenza diventerà fastidiosa per le istanze di onestà e le esigenze morali che richiama, questo “mondo” non esiterà a respingerlo e a eliminarlo.
C’è poi l’altra possibile risposta alla domanda di Gesù: quella della gente comune. Per loro il Nazareno non è un “ciarlatano”: è un uomo retto, uno che ha coraggio, che parla bene e che dice cose giuste, come altri grandi profeti della storia di Israele. Per questo lo seguono, almeno finché possono farlo senza troppi rischi e inconvenienti. Però lo considerano solo un uomo, e perciò, nel momento del pericolo, durante la Passione, anch’essi lo abbandonano e se ne vanno, delusi.
Colpisce, di questi due atteggiamenti, la loro attualità. Essi incarnano infatti idee che potremmo ritrovare facilmente — magari espresse con un linguaggio diverso, ma identiche nella sostanza — sulla bocca di molti uomini e donne del nostro tempo.
Anche oggi non sono pochi i contesti in cui la fede cristiana è ritenuta una cosa assurda, per persone deboli e poco intelligenti; contesti in cui ad essa si preferiscono altre sicurezze, come la tecnologia, il denaro, il successo, il potere, il piacere.
Si tratta di ambienti in cui non è facile testimoniare e annunciare il Vangelo e dove chi crede è deriso, osteggiato, disprezzato, o al massimo sopportato e compatito. Eppure, proprio per questo, sono luoghi in cui urge la missione, perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco.
Anche oggi non mancano poi i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto.
Questo è il mondo che ci è affidato, nel quale, come tante volte ci ha insegnato Papa Francesco, siamo chiamati a testimoniare la fede gioiosa in Cristo Salvatore. Perciò, anche per noi, è essenziale ripetere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16, 16).
È essenziale farlo prima di tutto nel nostro rapporto personale con Lui, nell’impegno di un quotidiano cammino di conversione. Ma poi anche, come Chiesa, vivendo insieme la nostra appartenenza al Signore e portandone a tutti la Buona Notizia (cfr. Conc. Vat. II, Cost. Dogm. Lumen gentium, 1).
Dico questo prima di tutto per me, come Successore di Pietro, mentre inizio questa mia missione di Vescovo della Chiesa che è in Roma, chiamata a presiedere nella carità la Chiesa universale, secondo la celebre espressione di Sant’Ignazio di Antiochia (cfr. Lettera ai Romani, Saluto). Egli, condotto in catene verso questa città, luogo del suo imminente sacrificio, scriveva ai cristiani che vi si trovavano: «Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo» (Lettera ai Romani, IV, 1). Si riferiva all’essere divorato dalle belve nel circo — e così avvenne —, ma le sue parole richiamano in senso più generale un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato (cfr. Gv 3, 30), spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo.
Dio mi dia questa grazia, oggi e sempre, con l’aiuto della tenerissima intercessione di Maria Madre della Chiesa.
Solennità di un’emozione
Gli affreschi michelangioleschi con la loro magnificenza guardano dall’alto nella Cappella Sistina l’ingresso della processione guidata stamane da Papa Leone XIV in occasione della messa pro Ecclesia con i cardinali all’indomani della sua elezione, ultimo atto prima di lasciare il luogo del Conclave.
Sulle note dell’antifona Iubilate Deo, il volto del Pontefice esprime ancora un’emozione tangibile, quando impugnando il crocifisso passa accanto ai porporati allineati davanti a lui. Un’emozione che diventa ancora più solenne quando Leone XIV, raggiunto l’altare, lo incensa e si ferma per un attimo a osservare il crocifisso, quasi a prendere ispirazione per le parole pronunciate a braccio, in inglese, prima dell’omelia: «Mi avete chiamato per portare una croce».
La prima lettura, tratta dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (21, 9b-14) è proclamata in inglese. Segue il canto del Salmo 97 «Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie»; poi in spagnolo viene letto un passo della Prima lettera di san Pietro apostolo. Il Vangelo, proclamato in italiano, è quello di Matteo (16, 13-19).
Leone XIV, che celebra all’altare allestito al centro del presbiterio, assistito dal Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, arcivescovo Giovanni Diego Ravelli, pronuncia l’omelia dopo aver innalzato l’evangeliario per benedire l’assemblea. Non manca di ricordare ancora una volta Papa Francesco, che tante volte «ci ha chiamati a testimoniare la fede gioiosa in Gesù Salvatore» invitando poi a «spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo».
Nelle intenzioni di preghiera si invoca l’unità della Chiesa; altre vengono elevate per il Papa, per i vescovi, per i presbiteri e i diaconi, per i religiosi e le religiose, per estinguere dagli uomini ogni rancore e per i sofferenti.
Al momento della preghiera eucaristica, accanto al Pontefice salgono all’altare il cardinale decano Giovanni Battista Re e il vice decano Leonardo Sandri.
Presenti alla celebrazione anche i segretari del Conclave, gli arcivescovi Fabio Fabene, segretario del Dicastero delle cause dei santi, e Ilson de Jesus Montanari, vicecamerlengo e segretario del Dicastero per i vescovi. I canti vengono eseguiti dal Coro della Cappella Sistina diretto da Marcos Pavan.
L’antifona mariana Regina Caeli e il canto Orate pro Pontifice Nostro concludono la celebrazione. Quindi il Papa lascia la Cappella Sistina benedicendo tra gli applausi dei presenti.