La corsa di Pietro

 La corsa di Pietro  QUO-106
08 maggio 2025

È bella la parola con cui si indica l’oggetto che gli atleti correndo si passano, di mano in mano, durante la staffetta: il testimone. Ed è una bella immagine, la staffetta, per dire ciò che è la Chiesa. Una staffetta che si svolge, si dipana, da venti secoli, lungo tutte le strade del mondo. Una storia di amicizia contagiosa. Un contagio fatto di incontri e, appunto, di testimonianza. Come un sasso che cadendo nell’acqua provoca una serie infinita di onde che si susseguono allargandosi continuamente, così la Pasqua del Signore risorto e le sue apparizioni ai suoi amici, gli apostoli (“inviati”) è come il Big bang che ha ri-creato il mondo, determinando questo moto ondoso che da due millenni investe il nostro mondo umano, «fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8).

Il modo con cui si manifesta questa “corrente umana” così scaturita a Gerusalemme è quello appunto della corsa, della staffetta precisamente. Non è una maratona, non è una corsa per fondisti ma per velocisti. Il tempo umano infatti è breve, e «la messe è molta» (Mt 9, 37), quindi è un lavoro per operai operosi, capaci anche di scatti improvvisi se le condizioni del mondo e della storia lo richiedono. Ha capito tutto il poeta polacco Twardowski nella sua più famosa lirica: Affrettiamoci ad amare. È un fatto d’amore, nient’altro. E nessuno va lentamente dalla sua fidanzata/o, ci va correndo. Come fa Pietro quando riconosce Gesù dalla barca e si butta in acqua per raggiungerlo lì sulla riva dove li stava aspettando, perché il Signore primerea, ci precede, ci anticipa.

Una staffetta quindi, non un lavoro per solisti ma un gioco di squadra. Gli staffettisti corrono per un tratto breve ma fondamentale, decisivo perché hanno una missione davanti a loro: consegnare il testimone a chi viene dopo di loro. Il testimone, la loro vita come testimonianza. Questa fiaccola che passa di mano in mano è più importante dell’identità e del valore del corridore, è il fuoco della fede che si deve propagare nel mondo, Gesù ce lo ricorda urgentemente nel Vangelo, con un grido: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12, 49). Abbiamo acceso il fuoco sulla terra? È questa la domanda che si pone ogni cristiano, ogni giorno. E continua con questo spirito la sua corsa. Anche oggi.

Pietro e Paolo, le colonne portanti della lunga corsa della Chiesa, a leggere le loro parole nella Bibbia, sempre corrono. Paolo corre verso la meta «dimentico del passato e proteso verso il futuro» (Fil 3, 13). Il cristiano ha una meta, sa che la storia ha un fine e una fine. Che è un nuovo inizio. Quel nuovo inizio che Pietro intuisce confusamente la domenica di Pasqua correndo verso il sepolcro. In quella corsa alla luce del mattino Pietro non arriva per primo. Una volta era abituato ad arrivare sempre primo, a primeggiare, così aveva fatto con il fratello Andrea, con gli altri apostoli, e con Gesù stesso, dandogli consigli che suonavano come ordini fino a quando il Maestro lo aveva rimproverato e ricordato che il suo compito era “andare dietro”, mettersi alla sequela. Che la sua corsa non è “sua” ma è un frammento, per quanto importante, di una infinita staffetta composta da tutta l’umanità e che «Dio non fa preferenze di persone» (At 10, 34). Quella mattina al Sepolcro Pietro arriva dietro, primo arriva Giovanni. L’Apostolo amato dal Signore, il mistico Giovanni, autore del quarto Vangelo, capolavoro spirituale e teologico. Eppure Gesù ha affidato la cura della Chiesa, di quella staffetta, non al veloce Giovanni, ma a Pietro, che spesso tende a inciampare. Pietro, cioè un uomo. Perché come intuisce un geniale scrittore inglese «Tutti gli imperi e tutti i regni sono crollati, per questa intrinseca e costante debolezza, che furono fondati da uomini forti su uomini forti. Ma quest’unica cosa, la storica Chiesa cristiana, fu fondata su un uomo debole, e per questo motivo è indistruttibile. Poiché nessuna catena è più forte del suo anello più debole».

A.M.