La complessa situazione nel Paese e l’escalation militare dell’Idf

Sulla Siria una partita
a scacchi tra Israele, Usa
e Turchia

epa12078272 Israeli soldiers are seen at the buffer zone near the village of Majdal Shams in the ...
07 maggio 2025

di Roberto Cetera

Se è vero, come spesso si dice, che in Medio Oriente nulla è come appare, il caso siriano rappresenta un laboratorio eccezionale. Dall’8 dicembre scorso, quando è salito al potere il leader del Hayat Tahrir al Shams (Hts) al-Sharaa, le azioni militari di Israele sul territorio siriano sono andate intensificandosi piuttosto che placarsi. Eppure il nuovo presidente siriano non ha mancato, fin dalle prime ore del suo insediamento, di rassicurare Israele sulle sue intenzioni tutt’altro che bellicose. Non ha approntato alcuna reazione alla creazione di una buffer zone a controllo israeliano sulle alture del Golan, ed è giunto ad apprezzare che, senza la severa sconfitta inflitta da Israele ad Hezbollah, il rapido rovesciamento di Bashar al-Assad non sarebbe mai potuto avvenire. Ancora di recente al-Sharaa ha chiarito: «Fin dall’inizio abbiamo annunciato che la Siria non avrebbe rappresentato una minaccia per nessun Paese della regione».

Per quanto il nuovo leader siriano non riesca tutt’oggi a controllare completamente i gruppi armati che lo hanno sostenuto nella presa del potere e il vecchio esercito siriano sia totalmente destrutturato, è evidente che l’allontanamento delle milizie sciite e del supporto militare iraniano dal proprio territorio abbiano costituito un vantaggio evidente per Israele rispetto al nemico storico e principale del regime degli ayatollah. E allora perché Israele anziché congratularsi per il cambio di regime, sta intensificando le operazioni militari? Che la ragione risieda esclusivamente nel nobile intento di tutelare la minoranza drusa dalle scorrerie delle bande islamiste non sembra francamente sufficiente. Un ex ufficiale dell’intelligence militare israeliana più prosaicamente spiega: «La Siria è ancora piena di armi pericolose, che in un paese di alta instabilità, potrebbero essere rivolte contro di noi, indipendentemente dalla volontà del governo in carica. La distruzione di questi arsenali è prioritaria per Israele».

Ma la ragione forse ancora più attendibile va rintracciata, sul piano geopolitico, nel confronto che oppone Israele alla Turchia di Recep Tayyp Erdoğan. Il presidente americano Trump, nel suo parlare sciolto, non ha esitato a definire il nuovo regime siriano come una filiazione del governo turco. E non ha nascosto di compiacersene. Innanzitutto perché ridimensiona la presenza russa in Medio Oriente, e soprattutto nel Mediterraneo. Ma forse è proprio in questa difficile triangolazione tra Usa, Israele e Turchia, che va trovata la chiave di lettura più appropriata attraverso cui interpretare l’escalation militare israeliana in Siria. Israele e Turchia si competono il ruolo di alleato più affidabile degli Usa nella regione. Con il non insignificante particolare che i due sono come l’acqua e l’olio. Erdoğan non solo non ha mai mancato di manifestare il proprio sostegno alla causa palestinese, ma dopo l’inizio della guerra a Gaza ha interrotto rapporti commerciali e voli dalla Turchia verso Israele, e soprattutto non ha esitato ad ospitare nel proprio territorio una parte del gruppo dirigente di Hamas, definendo Israele la più grave minaccia per la sicurezza dell’intera regione, giungendo a paragonare il premier israeliano Netanyahu ad Hitler.

D’altro canto dal punto di vista di Trump, mentre Israele è prevalentemente fonte più di problemi che di opportunità, Erdoğan presenta per gli americani il vantaggio di presentare un buon livello di relazioni con la Russia di Putin, essenziali al presidente americano per trovare la quadra sull’altro grande conflitto, quello ucraino. Inoltre Erdoğan potrebbe offrire a Washington la possibilità di sostituirsi alle truppe americane che ancora oggi fronteggiano ciò che rimane dello Stato Islamico.

Dopo la crisi intervenuta nelle relazioni tra i due paesi nel 2010 (con la vicenda dell’attacco israeliano alle sei navi della Gaza Freedom Flotilla, partite dalla Turchia), pian piano i rapporti tra i due paesi erano andati appianandosi fino allo scambio di ambasciatori nel 2022, ma di nuovo sono precipitati dopo la violenta reazione militare che Israele ha messo in campo a Gaza dopo il 7 ottobre 2023. Se è pur vero che l’esercito siriano è, dopo il cambio di regime, allo sbando, non è escluso che però nell’intensificarsi degli attacchi israeliani, al-Sharaa in futuro possa richiedere un aiuto all’esterno del suo paese, in primis al suo partner turco. Non è un mistero che trattative tra le autorità militari turche e siriane siano in tal senso già in corso, finalizzate al raggiungimento di un patto bilaterale di difesa. Prime spedizioni di armamenti turchi sarebbero già avvenute nella fascia settentrionale del paese, ad esempio nella base Menagh, vicino Aleppo. Non a caso Israele lo scorso mese ha reagito colpendo le due basi di Homs e di Tadmor.

In sostanza la Turchia si sta candidando a svolgere quel ruolo di assistente militare privilegiato che nel passato regime era degli iraniani. E, paradossalmente, anche gli armamenti siriani potrebbero rimanere i medesimi, se le armi russe che proteggevano il regime di al-Assad, tornassero in Siria attraverso i turchi, che ne importano in quantità (soprattutto i sistemi antimissilistici) pur aderendo alla Nato. Israele, dal canto suo, preme sugli Usa con l’argomentazione della scarsa affidabilità del nuovo presidente siriano in ragione del suo passato jihadista non così lontano nel tempo, e cerca di persuadere gli Usa a non includere la Turchia nel programma di equipaggiamento aereo con i caccia F35.

Nel frattempo di tutte queste manovre di geopolitica, la situazione interna alla Siria si aggrava ogni giorno di più con scontri armati e attentati che tornano a far vittime come al tempo della guerra civile. E le comunità cristiane vivono con grave preoccupazione questa ulteriore involuzione. Se da un lato al-Sharaa non ha mancato di esprimere a più riprese la promessa di tutela e protezione nei loro confronti, i timori dei cristiani di rimanere intrappolati in un crescendo di violenze crescono ogni giorno. Con qualche differenza di sensibilità tra le comunità rispetto al nuovo regime, che riflettono le relazioni passate che le chiese orientali avevano con il governo di Bashar al-Assad.

Per quanto gli eventi degli ultimi due anni, che stanno ridisegnando la mappa geopolitica del Medio Oriente, siano stati segnati dalla imprevedibilità, non appare oggi nel novero delle possibilità quella di uno scontro diretto tra Turchia ed Israele. Ma è invece possibile che il confronto tra i due possa darsi ed inasprirsi ulteriormente in un campo terzo; e a pagarne le conseguenze sarebbe ancora una volta la sofferente popolazione siriana.

Il pallino in questa partita a tre, tra Israele, Turchia e Stati Uniti, è comunque nelle mani della presidenza Trump. Un segnale importante per capire gli sviluppi futuri sarà dato dal viaggio che il presidente americano compirà nella metà di questo mese tra i governanti dei paesi del Golfo. Se Trump, come pure si ventila, incontrasse anche al-Sharaa, il messaggio per Israele risulterebbe inequivocabile. Dall’esito di quel viaggio dipenderanno molto i destini di Gaza e di Damasco.