
di Alessandra, Fanta, Giulia, Jasmine, Manuela, Patrizia, Stefania, Susanna, Maria-Thommasina
con Flavia Chiavaroli e Sergio Massironi
Le mura di un carcere non contengono soltanto storie, ma anche consapevolezze sofferte, guadagnate quotidianamente. «Il respiro è sacro: quando si ferma, si ferma la vita»: evidenza antica quanto l’umanità, biblica sin dal racconto della creazione, ma dirompente in un luogo in cui presto «manca l’aria».
«Aria» è la parola che descrive quei minuti tanto attesi in cui si può uscire all’aperto e dimenticare il chiuso, magari abbassando le palpebre e inspirando profondamente ciò che respira anche chi è fuori. Libertà. Respirare tiene in vita il nostro corpo e il nostro cuore: gli organi hanno bisogno di quell’ossigeno che mai dalla nascita abbiamo smesso di fare entrare in noi. Come il primo pianto di un bambino che inizia a respirare, uscito dall’utero materno, la nostra stessa aria, così una ricerca automatica segue il ritmo del nostro sentire, anche quando non ce ne accorgiamo, o non le diamo peso.
Il respiro racconta di noi: aumenta per permettere al battito cardiaco di accelerare quando siamo sotto sforzo; si modifica quando siamo in sofferenza, ma ancor di più quando proviamo paura e il nostro istinto animale ci porta a scappare lontano. Il carcere però è fatto per non scappare: contiene. Qui non siamo nella giungla del mondo fuori, tanto pericolosa, quanto vasta e sconfinata. Qui siamo come in un bosco piccolo e spesso cupo, in cui è facile perdersi, tanto quanto sentirsi confinati e in trappola. Eppure, nessuno può imprigionare un respiro, né rubarcelo. Lo si può trattenere, ma non fermare: si è ugualmente umani dentro e fuori dalla reclusione. «Il respiro, in qualsiasi contesto in cui lo viviamo, è vita», cioè siamo noi, irriducibili alle condizioni esterne. Sfidate, ma mai del tutto imprigionate, dagli atteggiamenti altrui, da un determinato carattere, dalla propensione a incamerare o a reagire.
Molte di noi trovano nella preghiera e nella meditazione una via per entrare in contatto con sé stesse, con il nostro mondo interiore più profondo. E il primo passo, per mettersi in ascolto di sé, è mettersi in ascolto del proprio respiro. Educarne il ritmo e rallentarne gli spasmi aiuta la mente a trovare la pace necessaria, per venire a contatto coi nostri stati d’animo, le nostre paure, le nostre emozioni. Ascoltarne la sinfonia, o il tumulto, è in qualche modo connesso a questo gesto innato e fondamentale per la sopravvivenza, che racchiude — pare — il più potente veicolo di conoscenza del proprio cuore, della propria energia vitale. Forse per questo “spirito” è “soffio”, “vento”, “respiro”. Non vi è nulla di più immediatamente espressivo dell’umano di un sospiro, o di un’apnea.
Se è vero, infatti, che nessuno può rubarci il respiro, la reclusione è paragonabile a un’interminabile apnea. Persino nello sport, essa chiede allenamento. In quell’attimo in cui si trattiene il fiato — ci spiegano le donne della Giudecca —, si cerca di trattenere e interiorizzare tutte le emozioni che non possono uscire: rabbia, dolore, debolezza, rancore, solitudine. La sospensione del respiro è qui, spesso, un atto di sopravvivenza. E d’altra parte, in pochi luoghi come questo il respiro altrui è vicino, si avverte, può divenire minaccia o compagnia. Qui ci si abbraccia, in alcune occasioni, spesso di svolta. E poche volte si è in contatto col respiro altrui quanto avvolgendosi reciprocamente in un abbraccio.
Che paradosso! Ci sono luoghi in cui il contatto con sé stessi è un lusso che non ci si concede, pur avendo tutta la libertà di farlo. Allora si sentono ben poco anche gli altri e li si calpesta, come oggetti inanimati. Invece, dove manca l’aria bisogna avere il coraggio di concedersi il lusso di ascoltarsi, senza più resistere a troppi demoni, a profondi terrori, a vergogne e delusioni. Riprendere fiato in una chiassosa solitudine. Buttare fuori l’aria immagazzinata nelle tante apnee; tornare in contatto con l’ossigeno del bene, con la sua vitale energia; scavare la solitudine, navigandone gli abissi per poi risalire con vigorose pinnate: quando “basta così” e niente ci è più dovuto, niente è più recriminato, il soffio della gratitudine torna ad aprire un varco. Allora si è anche in grado di trovare nello sguardo dell’altro, nascosto nell’angolo di una buia stanza, il bisogno di aiuto sincero. Allora si distingue la chiamata a tendergli una mano. «Abbiamo sulle nostre spalle — come dice un’altra voce — un lupo bianco e un lupo nero: siamo noi a decidere chi nutrire dei due». Espirare il male, inspirare il bene, decidere. Così si impara, persino, a dire dei “No”, come si impara a respirare: senza alcun risentimento, ma invece e sempre con una ragione. Sarà che la libertà ha un profumo diverso, come in carcere pensano in tanti, ma non si può smettere di respirare, aspettando di risentirlo. Meglio continuare a essere umani qui e ora, per prepararsi al meglio che ci riserverà il domani.