DONNE CHIESA MONDO

Il pontificato di Bergoglio e il filo con il Vaticano II

Un uomo venuto dal Concilio

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03 maggio 2025

Un concilio e un pontificato sono due realtà complesse, impattano sulla cronaca, ma danno frutti nella storia. Come tutti gli altri pontificati, anche quello di Francesco sarà giudicato dalla storia e, come tutti gli altri concili, anche il Vaticano ii sta vivendo il vaglio del giudizio storico. Più che degli storici, sarebbe meglio dire il giudizio della Chiesa che vive nella storia. E sappiamo bene quanto sia stata faticosa, in questi primi sessant’anni, la recezione di un concilio convocato con il preciso intento di un rinnovamento della chiesa cattolica e in un momento in cui la chiesa cattolica era diventata ormai veramente universale perché rappresentata in concilio da vescovi di tutti i continenti che portavano con sé la forza di chiese particolari che proclamavano e vivevano la fede in contesti ormai molto diversi tra loro. Non sarebbe stato possibile, d’altronde, vedere susseguirsi, dopo il Concilio, un papa polacco, uno tedesco, uno argentino se la realtà non fosse già quella di una chiesa per la quale la qualifica di cattolica coincideva ormai con l’abbandono dell’eurocentrismo e la diaspora ai confini della terra.

Una cosa poi è certa: fin dai primi giorni dalla sua elezione Francesco ha lasciato intendere che il concilio Vaticano ii non è passato invano. Va detto senza enfasi, certo, ma non senza convinzione. Basta pensare all’omelia che egli stesso ha tenuto in una celebrazione dell’11 ottobre 2022, in occasione dei sessant’anni dalla solenne apertura di quell’assise che è passata alla storia come un tempo di “primavera della chiesa”, una celebrazione che il Papa aveva voluto intuendo anche il significato che proprio la memoria del Concilio avrebbe potuto e dovuto avere lungo l’anno giubilare. «Ritorniamo alle pure sorgenti d’amore del Concilio. Ritroviamo la passione del Concilio e rinnoviamo la passione per il Concilio»: a sessant’anni di distanza, Francesco ha cercato di riprendere il filo che ne aveva innescato in clima, disegnato l’orizzonte, stabilito le finalità.

Gaudet Mater Ecclesia” (La Madre Chiesa si rallegra): sono state queste le prime parole del discorso con cui Giovanni xxiii ha aperto il Concilio e Francesco ha ribadito: «La Chiesa sia abitata dalla gioia. Se non gioisce smentisce se stessa, perché dimentica l’amore che l’ha creata». E sappiamo bene che, soprattutto nella prima parte del suo Magistero, Francesco non ha avuto paura di insistere proprio sugli atteggiamenti di gioia e di lode che lasciano trasparire la disposizione fiduciale con cui la Chiesa guarda a Dio e cammina nella storia. Basta pensare ai titoli dei suoi primi quattro documenti che rimandano alla gioia del vangelo (Evangelii gaudium), alla lode a Dio di fronte al dono della creazione (Laudato si’), all’allegria di un amore capace di incarnarsi nei chiaroscuri della quotidianità (Amoris laetitia), alla misericordia (Misericordia et misera), parola forte del lessico evangelico, che Francesco ha messo al cuore del suo pontificato quando ha scelto come motto la frase con cui Beda il Venerabile commenta in un’omelia la vocazione di Levi il pubblicano: Miserando atque eligendo (Matteo 9,9: «lo guardò con sentimento di amore e lo scelse»).

Riconoscere la presenza di Dio nella storia ed esserne riconoscenti perché è una presenza benevola e piena di grazia non rimanda forse alla costituzione Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo con cui il Concilio ha fatto entrare il mondo in un’assise quasi totalmente clericale e avviato così quel processo di declericalizzazione che Francesco ha capito essere l’unica possibilità per far uscire la Chiesa cattolica dalle secche nelle quali rischia di restare incagliata all’inizio del terzo millennio? D’altra parte, il suo incessante richiamo a una Chiesa che «è comunione» e per questo non cede «alla tentazione della polarizzazione» non rimanda con forza alla costituzione sulla Chiesa Lumen gentium? Lo ha detto anche quella sera con l’intensità che ha caratterizzato la sua ecclesiologia durante tutto il suo pontificato: «il Popolo di Dio nasce estroverso e ringiovanisce spendendosi». È stato il sogno del Concilio e si è trasformato nel programma di vita di chiese nazionali e comunità ecclesiali che in questi decenni non hanno smesso di impegnarsi per costruire un mondo un po’ meno ingiusto.

Ci si può domandare se, proprio in quanto «uomo venuto dal Concilio» a Francesco non è toccato di viverne le stesse lacerazioni. Perché sia lo Spirito che la lettera del Concilio hanno cercato in tutti i modi di non cedere alle divisioni, di mediare le differenze ormai inevitabili in una Chiesa sparsa in tutto il mondo, di trovare un linguaggio capace di non rinunciare al grande lascito della tradizione senza però cedere alla paura di fronte al rinnovamento che ogni futuro impone. Dal Concilio Francesco ha ricevuto la gravosa eredità di una Chiesa che deve confrontarsi con una svolta, con una Riforma che le chiede di ripensare al suo passato con lucidità per capire il da farsi con cuore riconciliato. Per liberarsi dalla cappa degli abusi di potere e di coscienza, nonché di quelli sessuali, certamente, ma soprattutto per confrontarsi con un mondo sempre più assetato di violenza e mantenere salda la sua fiducia nella forza che viene dal suo Dio e nell’intima bontà dell’essere umano. Ma anche per trovare nuovi modi di comporre dottrina e disciplina per edificare una casa accogliente per tutti.

A ragione Francesco è stato convinto che il mondo ha bisogno della Chiesa: lo abbiamo visto al tempo del Concilio, quando la Chiesa ha testimoniato che poteva essere per il mondo, come amava dire Giovanni xxiii, la fontana nella piazza del paese. Lo vediamo nei giorni bui che stiamo vivendo nei quali solo un pontefice anziano e malato non ha mai cessato di farsi voce di un Dio che ha detto: «Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo - oracolo del Signore -, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Geremia 29,11).

di Marinella Perroni