«Vogliamo coesistere

di Roberto Cetera
«Papa Francesco ha condiviso le sofferenze del popolo palestinese, ed ha sempre sostenuto il suo diritto all’autodeterminazione. Senza dubbio Papa Francesco è stato un amico del popolo palestinese». È l’esordio di una conversazione con il primo ministro dello Stato di Palestina, Mohammad Mustafa, in visita a Roma per partecipare ai funerali del Papa insieme alla ministra di Stato per gli Affari esteri, Varsen Aghabekian. Mustafa, nominato primo ministro — con un profilo tecnico — poco più di un anno fa, per la prima volta si concede ad una lunga intervista in esclusiva al «L’Osservatore Romano» e al quotidiano italiano «la Repubblica».
«Nel corso di questi difficili mesi abbiamo sostenuto, tra l’altro, una campagna per il riconoscimento dello Stato di Palestina. E sicuramente, se oggi più di 140 paesi nel mondo hanno relazioni diplomatiche con lo Stato di Palestina, lo dobbiamo anche alla coraggiosa decisione di Papa Francesco, che il 13 maggio del 2015 decise il riconoscimento dello Stato da parte della Santa Sede. Mi piace aggiungere che la relazione tra Papa Francesco e il nostro presidente, Mahmoud Abbas, non è stata solo politica e diplomatica, ma un’autentica relazione di amicizia tra due saggi uomini di pace. Papa Francesco non è stato solo un leader religioso, ma un leader spirituale globale, per tutti. Anche fuori dei confini della comunità cristiana. Per le sue parole di giustizia e di pace, per le sue parole in favore dei poveri, degli ultimi, dei più deboli. Per le sue parole quotidiane alla comunità cristiana di Gaza e a tutti i sofferenti nella Striscia».
La situazione dei cristiani in Terra Santa si fa sempre più difficile, non solo a Gaza.
Assolutamente. Basta vedere cosa è successo a Gerusalemme nel giorno di Pasqua, il comportamento aggressivo della polizia israeliana nei confronti dei pellegrini cristiani al Santo Sepolcro. Non riesco veramente a capacitarmi dei comportamenti del governo israeliano, anche per questo aspetto delle relazioni con le altre religioni. Questa è una questione importante perché il senso religioso è un bisogno primario dell’uomo, e in quanto tale va rispettato in base ad un principio umanitario. Anche perché in fondo preghiamo lo stesso Dio. Ma il governo israeliano non sembra volersene curare, così come non ascoltano le reazioni sdegnate che arrivano da tutto il mondo. Si stanno creando inimicizie ovunque, e questo, le confesso, ci dispiace. Perché noi non vogliamo questo. Perché noi vorremmo un Israele con cui coesistere in pace e rispetto reciproco. Io spero che questo atteggiamento escludente possa presto terminare.
La sua speranza sembra però mortificata dalla realtà. La guerra va avanti da ormai 19 mesi, e i negoziati sembrano essere al loro livello più basso.
La mia speranza non è utopia. Ma è la semplice costatazione che realisticamente non c’è alternativa alla fine della guerra, all’instaurazione di un nuovo governo a Gaza, alla ripresa dei negoziati tra Israele e noi. Non c’è alternativa anche per Israele. È forse Israele più forte oggi che due anni fa? Sul piano internazionale scontano un crescente isolamento. Sul piano interno montano sempre più le proteste per la fine della guerra e il ritorno degli ostaggi. E, anche sul piano militare, sono 19 mesi che uno degli eserciti più forti al mondo combatte contro delle milizie che non hanno certo le armi, i tank, e l’aviazione degli israeliani, ma non sembrano ancora esserne venuti a capo. Le ripeto, la nostra azione politica in questa fase ripercorre le parole spesso pronunciate da Papa Francesco: fine della guerra, disarmo, coesistenza pacifica tra i due popoli attraverso un processo di riconciliazione. E come diceva il Santo Padre: la speranza non delude mai. Anche quando il tuo interlocutore è Netanyahu, il cui scopo sembra essere solo quello di uccidere più palestinesi possibile, deportarli, esportare settlers nelle nostre terre occupate, anche quando il quadro è questo dobbiamo mantenere la speranza, e lavorare per un futuro di riconciliazione.
Solo qualche giorno fa il presidente Mahmoud Abbas ha rivolto un inusitato violento attacco, comprensivo di irrituali invettive, ad Hamas e ai suoi dirigenti. Così come non era mai accaduto prima. Può essere letto come un segno che qualcosa si sta muovendo nei negoziati sulla fine definitiva della guerra e l’instaurazione di un nuovo governo a Gaza?
È una storia che comincia da lontano, quando 18 anni fa Hamas prese il potere a Gaza, e questo ha avuto un brutto impatto sulle condizioni di vita dei gazawi, e sul nostro processo di realizzazione dei due Stati. Il 7 ottobre ovviamente ha cambiato totalmente lo scenario, questa guerra sta chiarendo molte cose, in primis l’identificazione di chi veramente si adopera per la libertà e il bene del popolo palestinese. A Gaza e anche in Cisgiordania. La nostra prospettiva politica di riconciliazione sta invece ottenendo il consenso e il supporto dei paesi aderenti alla Lega Araba e in particolare dell’ Arabia Saudita e di tanti altri paesi che siedono nel consesso delle Nazioni Unite. A Gaza come nel resto della Palestina deve esserci il medesimo governo e deve essere applicata la medesima legge. Gaza deve tornare unita alla Cisgiordania. Solo così possiamo togliere al popolo palestinese nel suo intero la sofferenza che sta vivendo. Noi sentiamo questa responsabilità sulle nostre spalle, con il supporto della comunità internazionale e dei Paesi arabi. E delle istituzioni economiche internazionali, per passare dalla fase dei “master plan” ad un vero piano di ricostruzione, attraverso una conferenza internazionale.
Ma è realistico pensare che Hamas possa scomparire?
Guardi, vi sono tre piani diversi che dobbiamo considerare. Uno è quello del governo, il secondo è quello della sicurezza, e il terzo è quello delle ideologie e delle posizioni politiche della gente. Sul primo piano, se Hamas si configura come un partito politico, rigettando l’opzione militare, ovviamente non sarebbe esclusa dall’arena politica palestinese. Se oltre ciò intendesse anche partecipare ad un governo unitario, e quindi aderire all’Olp, dovrebbe condividere i nostri principi che si riassumono essenzialmente nella realizzazione dei “due Stati” attraverso un processo pacifico e non militare. Ci tengo a precisare da questo punto di vista che il governo che presiedo è un governo “tecnico” che deve traghettare il nostro Paese fuori della corrente crisi. Non è il governo di Fatah, né di altra fazione o corrente palestinese. Sul piano della sicurezza è conseguentemente ovvio che le uniche forze di sicurezza ammesse nei nostri territori saranno quelle dipendenti dal nostro governo di Ramallah. Infine, sul piano delle idee politiche, ognuno si tenga le sue, anche se noi lavoreremo perché cresca nella società palestinese una cultura della riconciliazione, della coesistenza, della pace.
In un’intervista che ci concesse lo scorso dicembre il presidente Mahmoud Abbas espresse una grande fiducia nell’azione mediatrice del presidente americano, Donald Trump. Alla luce della fine della tregua e di quanto è successo negli ultimi mesi questa fiducia persiste?
La posizione del presidente Trump sul Medio Oriente è chiara e il suo ruolo sullo scenario internazionale è molto forte. Io credo che quando verrà il momento saprà indicare un accordo improntato a pace e giustizia. Senza un accordo che sancisca preliminarmente la fine della guerra a Gaza non si potrà negoziare il resto delle questioni. È urgente che finisca la guerra nella Striscia. Non solo una tregua, ma la fine della guerra. E Trump è molto determinato in questa direzione. Ed è importante in questo senso il canale che tiene aperto con l’Arabia Saudita. Sarà anche molto importante la Conferenza internazionale per la pace che si terrà a New York il 17 giugno promossa da Riyad e da Parigi. E così anche la visita che Trump farà in Arabia Saudita a metà maggio. Un sentiero per la pace ora si intravede. Occorre percorrerlo con decisione. Anche perché, ripeto, non vi sono alternative.