
di Abraham Skorka
Appena eletto Papa, Francesco mi ha telefonato e mi ha dato l’indirizzo di posta elettronica che avremmo potuto usare per rimanere in contatto. Da quel giorno di marzo del 2013 fino a ora nella nostra corrispondenza ci siamo rivolti l’uno all’altro con “Caro Fratello”.
La nostra amicizia è iniziata nella seconda metà degli anni Novanta ed è stata caratterizzata dal rispetto reciproco e dal dialogo sincero e diretto. Poco a poco ci siamo rivelati l’uno all’altro, aprendo i nostri cuori. Abbiamo costruito un dialogo aperto, dove le divergenze erano normali e i silenzi spesso riempivano i vuoti. Avevamo opinioni diverse su molti argomenti ma ciò non ha mai sminuito la forza delle nostre conversazioni. Il nostro fine era di sviluppare un dialogo nel senso più profondo del termine. Sia da cardinale arcivescovo di Buenos Aires sia da Papa, non ha mai assunto una posizione di superiorità nei miei confronti durante i nostri incontri privati, né nella comunità della mia sinagoga, né nel suo ufficio a Buenos Aires o nella stanzetta a piano terra della Domus Sanctae Marthae in Vaticano. Diceva spesso: «Siamo sullo stesso piano».
Francesco, o Jorge Mario, per me non era solo una figura autorevole, bensì un vero amico. Nei nostri primi incontri abbiamo condiviso il sogno di costruire un mondo migliore. Ciò è avvenuto molto prima che fosse eletto Papa, e dopo l’inizio del suo pontificato mi ha confidato tante delle sue visioni e dei suoi progetti.
La sera dell’11 ottobre 2012, presso la Pontificia università cattolica dell’Argentina, della quale Bergoglio era gran cancelliere, si è svolto un evento storico. Per la prima volta quell’università ha conferito una laurea honoris causa a un ebreo, un rabbino. Ricorderò per sempre quel momento, soprattutto perché è stato un evento centrale delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dell’inizio delle sessioni del Concilio Vaticano ii. Mentre mi metteva al collo la medaglia dell’università, mi sussurrò: «Non sai quanto ho sognato questo momento». Attraverso quella cerimonia, Bergoglio mirava a consolidare la nuova direzione intrapresa dalla Chiesa nei rapporti tra ebrei e cattolici.
Siamo stati insieme a Gerusalemme e ci siamo abbracciati davanti al Muro Occidentale, il luogo più sacro della tradizione ebraica. È il luogo dove, secondo la tradizione cristiana, Gesù ha predicato e, secondo quella musulmana, Maometto è asceso al cielo. Insieme al nostro amico Omar Abboud abbiamo presentato un’immagine di amicizia ebrea-cristiana-musulmana che, speravamo, in futuro avrebbe ispirato molti a seguire il cammino della pace.
Nei suoi libri autobiografici egli ha condiviso una visione più profonda di ciò che ho brevemente descritto qui. Nel secondo capitolo di Life. La mia storia nella storia narra eventi della Shoah che gli avevo raccontato io. E mi ha scaldato il cuore quando, al capitolo 19 di Spera. L’autobiografia, ha scritto dell’importanza della nostra amicizia e di ciò che significava per lui. È questo il genere di dialogo che è stato una benedizione per entrambi. Francesco mirava a purificare sia la sua Chiesa sia il mondo. Con un misto molto umano di conquiste e passi falsi, ha cercato seriamente di creare un cammino sul quale la presenza di Dio potesse essere più evidente per tutte le persone.
Alberto Cortez, un cantautore argentino, nella sua canzone Quando un amico ci lascia ha espresso un bellissimo sentimento: «Quando un amico ci lascia / rimane un marchio che brucia / che non può essere spento /nemmeno dalle acque di un fiume».
L’affetto di Francesco, la sua umiltà e la sua straordinaria sensibilità verso i poveri, i deboli e i bisognosi continueranno a risplendere attraverso l’eredità duratura che ha lasciato dietro di sé.