
Per rinnovare il tradizionale incontro del Giovedì Santo con i detenuti
di Salvatore Cernuzio
Il bacio inviato ai detenuti dietro i finestroni sbarrati della sezione “protetta”. Poi il «Pregate per me», scandito sotto voce alla serie di volti che sbucavano dalle grate affacciate sul cortile. Infine le poche, significative, parole pronunciate con voce flebile ma decisa: «Sempre il Giovedì Santo mi è piaciuto venire in carcere per fare come Gesù la lavanda dei piedi. Quest’anno non posso farlo, ma posso e voglio essere vicino a voi. Prego per voi e per le vostre famiglie».
Ieri, 17 aprile, è durata trenta minuti, ma per intensità sono sembrate un paio d’ore, la visita del Papa nella casa circondariale di Regina Coeli, a Roma, per incontrare circa 70 detenuti di diverse età e nazionalità (il 55% dei quali in attesa di giudizio). Convalescente a Santa Marta, reduce da 38 giorni di ricovero al Policlinico Gemelli per la polmonite bilaterale, Francesco non ha voluto far mancare la sua presenza in un penitenziario come quasi sempre ha fatto nel primo giorno del Triduo pasquale lungo i dodici anni di pontificato e, ancor prima, a Buenos Aires.
Trenta minuti, appunto, il tempo di un saluto e di una benedizione, di un abbraccio e di un Padre Nostro, con il sottofondo ininterrotto degli applausi, dei cori in romanesco, delle mani battute sul vetro, delle grida provenienti dalle balconate delle tre sezioni che si ergono sopra la rotonda centrale, vegliata dalla statua della Regina del Cielo: una Madonna con in braccio Gesù bambino.
«Libertà!», «indulto!», «padre!», «siamo con te!», «bello mio!», «non te ne andare!», «prega per la Palestina!», si è udito per tutto il tempo da ogni angolo di questa antica struttura di via della Lungara, alle spalle del rione Trastevere, ex convento divenuto nel 1881 carcere che, secondo la tradizione, concede la “patente” di romano a chi ne oltrepassa i famosi tre gradini.
Un luogo più volte raggiunto dai Successori di Pietro, dove compì una memorabile visita Giovanni xxiii nel dicembre 1958.
Più volte prima, durante e dopo l’arrivo di Papa Francesco, la direttrice Claudia Clementi e le guardie hanno richiamato le persone detenute all’ordine e al silenzio, ma era difficile contenere l’emozione di vedere il Vescovo di Roma nello stesso salone dove ogni domenica si riuniscono per ascoltare le catechesi del Cappellano o partecipare alla Messa.
«Ahó, sta ‘na bomba, dopo quello che ci ha avuto, semo contenti de vedello così», sussurrava un uomo al suo vicino di sedia sentendo Francesco parlare. «Ci pensi? Siamo fortunati... La gente fuori non lo vede e noi dentro sì», ha detto invece più composto Suduc, da sei mesi in carcere. Lui si è guadagnato la prima fila, insieme ad altri compagni, tra i 20 e i 65 anni, provenienti dall’Italia e da altri Paesi europei e addirittura altri continenti. C’era Mauro, sessantacinquenne che si è presentato fieramente come «romano de Roma», chiedendo ai media vaticani di diffondere un messaggio: «Volevo dire al Papa di insistere sulla pace in questo mondo che sta andando in tecnologia».
Accanto a lui Alessandro, 56 anni, che ha voluto inviare un saluto ai due figli, Vittoria Romana e Gabriele, e alla loro mamma: «Ricordati, eh! Te sei segnato i nomi? Non li vedo da diciotto mesi. Gli mando un bacio grande».
Tutti gli altri si sono distribuiti tra le altre sedie, quasi tutti con un rosario di legno al collo e con il libretto delle preghiere o versioni tascabili del Vangelo tra le mani. Altri Vangeli li ha regalati il Papa stesso insieme alle coroncine del rosario, passando tra le cinque file e fermandosi con ognuno dei presenti. C’era chi si è buttato in ginocchio, chi gli ha baciato la mano o ha poggiato la fronte sulla carrozzina. «Me ne può dare un altro? Per favore, tra poco esco e glielo voglio dare a mia sorella», ha urlato un ragazzo alzandosi dalla sua sedia e indicando il rosario.
Francesco ha compiuto il giro rapidamente, ma si è fermato per qualche istante con Ferdinando, recluso da dicembre. Carnagione scura, le sopracciglia tagliate come tanti piccoli trattini, per tutto il tempo ha stretto tra le mani un foglietto bianco con sopra scritto: «Che la luce del Signore possa illuminare la mia vita e quella della mia famiglia. Grazie Papa per averci degnato della vostra presenza». Il giovane fremeva prima dell’arrivo del Pontefice e più volte ha chiesto alla direttrice: «Mi aiuta a darlo al Papa?». Alla fine è stato lui stesso a metterlo nelle mani di Francesco, che ha voluto informarsi dal ragazzo sulla sua famiglia. «Prego per te», ha assicurato alla fine. E Ferdinando è scoppiato a piangere: «E chi l’aveva mai visto il Papa! Non pensavo di trovarlo in carcere». «Dillo che ce sei venuto a posta!», ha fatto eco un compagno con una battuta.
Qualche parola, nella confusione generale, Papa Francesco l’ha scambiata anche con Matteo, 26 anni, che gli ha chiesto di firmare la sua copia del Vangelo. Ha raccontato di essere da un mese e mezzo al Regina Coeli «per errore: difendevo la mia ragazza da una tentata violenza, solo che m’hanno fregato. Quello è andato a dire, con falsi testimoni, che io invece lo stavo aggredendo e rapinando. Lui sta fuori e io qua».
Una storia di sofferenza come le tante che nella mezz’ora di visita si sono intrecciate nel salone già visitato da Jorge Mario Bergoglio nel 2018, in quell’occasione per celebrare il rito della Lavanda dei Piedi (una targa sul muro ricorda l’evento). Nessuno dei reclusi ieri presenti c’era sette anni fa — il Regina Coeli non è un luogo di lunga detenzione —, ma tutti speravano in un ritorno del Pontefice. Anzi, gliel’hanno proprio chiesto espressamente tramite una lettera firmata da Giovanni — ieri pomeriggio alla consolle per l’audio — e altri «amici» che dopo la visita a Rebibbia, lo scorso 26 dicembre, per l’apertura della Porta Santa, hanno scritto a Francesco: «Passi anche da noi». «Oh, abbiamo pregato ed è venuto davvero!».
Sì, il Papa è andato al Regina Coeli. Nessuno se lo aspettava, nessuno lo pretendeva viste le condizioni di salute. «Una sorpresona» la definisce con i media vaticani il cappellano padre Vittorio Trani, da anni in missione in mezzo a questa umanità complessa e ferita: «Credo che quello di oggi sia un gesto di una portata enorme perché esprime l’attenzione di un padre verso una realtà di persone in difficoltà. Il carcere non riguarda soltanto i detenuti, ma anche chi vi lavora, chi ha la responsabilità della dirigenza, veramente è un lavoro arduo. E il Papa non ha voluto far passare la Pasqua senza un qualcosa che tangibilmente portava nel cuore».
E quello che ha portato nel cuore da questa visita, Papa Francesco stesso lo ha confidato a un gruppo di giornalisti fuori dal portone: «Ogni volta che io entro in un posto come questo mi domando: perché loro e non io?». Poi una battuta, con il tipico piglio ironico, alla domanda: «Come vivrà la Pasqua?». «Come posso» è stata la risposta.