
di Roberto Cetera
I prossimi 8 e 9 maggio Gerusalemme sarà invasa da una marea di popolo, ebrei, musulmani e cristiani, arabi e israeliani, in quella che gli organizzatori prevedono possa essere la più grande manifestazione per la pace (vedi «L’Osservatore Romano» del 26 febbraio scorso). Un appuntamento che si è reso possibile per la convergenza di tutte le associazioni e movimenti pacifisti israelo-palestinesi con la regia dell’israeliano Maoz Inon e del palestinese Aziz Abu Sarah, i due militanti che lo scorso anno incontrarono a Verona Papa Francesco. Ognuna delle associazioni ha sensibilità specifiche e anche orizzonti politici diversi, ma per una volta tutte si sono riunite per reclamare la fine della guerra a Gaza, la più cruenta e distruttiva tra le guerre che tormentano la Terra Santa da 77 anni. Meron Rapoport, autorevole firma dei magazine «+972» e «Local call» è in questi giorni in Italia dove ha partecipato, insieme a Ghousoon Bisharat, direttrice delle testate, ad un seguitissimo intervento al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia. In visita alla nostra redazione abbiamo rivolto al proposito a Meron alcune domande sulla speranza di pace.
Meron, «+972» e «Local call», parteciperanno alle manifestazioni di maggio a Gerusalemme?
Noi siamo giornalisti, e teniamo molto alla nostra indipendenza, per cui non aderiamo formalmente ad alcun evento politico. Tuttavia non si può ignorare che i nostri magazine hanno svolto un ruolo molto importante nel suscitare un movimento sempre più esteso contro la guerra. Lo dicono le stesse cifre della nostra diffusione, che dopo il 7 ottobre ha raggiunto il picco dei 220.000 lettori. Sicuramente lo straordinario successo ai premi Oscar di Hollywood del film No other land realizzato da due nostri giornalisti ha ulteriormente incrementato la notorietà delle nostre testate, e il favore che le nostre inchieste contro l’occupazione militare e contro l’apartheid riscuotono, in Israele, in Palestina e — per la lingua inglese — un po’ ovunque nel mondo.
Sì giornalista, ma lei è anche un militante pacifista con l’associazione che hai contribuito a fondare: “A land for all”, “Una terra per tutti”. Vuole spiegarci quale contributo portate al movimento pacifista israelo-palestinese, e qual è la vostra visione specifica?
Noi crediamo, al pari di molti altri, che pace, sicurezza e stabilità nella regione passino necessariamente attraverso la soluzione dei due Stati. Con una precisazione importante però. Gli accordi di Oslo del ’93 fallirono per due motivi. Intanto perché rimasero gli accordi di due élite politiche e non scesero, non vennero metabolizzati, nelle due società, che continuarono ad opporsi una all’altra. Il secondo motivo è che questo accadde perché nella coscienza sociale dei due popoli, vorrei dire nell’inconscio collettivo di entrambi, regna la convinzione che la propria terra vada “dal fiume al mare”. Per un ebreo è normale pensare che Gerico o Betlemme siano idealmente parte della propria terra. Così come per un palestinese è normale pensare che la Palestina si affacci al Mediterraneo non solo dalle coste di Gaza, ma anche da Jaffa e Haifa. È una percezione direi prepolitica, istintuale.
E quindi?
E quindi credo che la soluzione dei due Stati debba essere accompagnata da un regime di federazione tra i due, di libera circolazione dei due popoli, perché tutti possano attraversare una terra che entrambi sentono propria, indifferentemente dalla giurisdizione amministrativa a cui è sottoposta. Utopistico? Non direi, se pensiamo che oggi più di due milioni di arabi vivono in Israele. Perché centinaia di migliaia di ebrei non potrebbero vivere liberamente e sicuramente in Palestina? Il punto vero su cui lottare allora non è più la misurazione al centimetro delle frontiere tra i due Stati, ma il grande tema dell’uguaglianza e dei pari diritti, tema che oggi è fortemente compromesso dalla politica di apartheid perseguita da Israele, e dal cieco fondamentalismo di una parte palestinese. Occorre abbattere la logica della supremazia di uno stato e di un popolo sull’altro e piuttosto impegnarsi sul terreno degli uguali diritti. Questa è la terra di entrambi, dove possono vivere entrambi. Una terra condivisa. Una condivisione che un domani potrebbe utilmente estendersi alla Giordania, o al Libano. In un modello uguale a quello che praticate voi qui nell’Europa del libero scambio e della comune economia. Guardi che già oggi, israeliani e palestinesi condividono molte cose: pensi al fatto che a Gerusalemme come a Gaza paghiamo con la stessa moneta, lo shekel; o che le due economie sono molto più connesse di quanto possa sembrare.
Cosa occorre perché ciò accada?
Sicuramente occorrono più occasioni di conoscenza e condivisione di base tra i due popoli. Ma preliminarmente occorre un ricambio delle classi dirigenti attuali, che hanno precipitato i loro popoli nella distruzione e disperazione.