(s)Punti di vista
Saper leggere il senso dei segni del tempo, non il loro scopo

Simbolici o diabolici?

 Simbolici o diabolici?  QUO-084
12 aprile 2025

di Andrea Monda

Insomma ci sono due tipi di persone: i simbolici e, quindi, i diabolici. Intendiamoci, non sto parlando di persone “mefistofeliche”, irrimediabilmente cattive e quindi perdute; no, sto parlando di due approcci alla vita che queste due parole evidenziano proprio a partire dal loro significato etimologico. La lingua greca, si parte sempre da lì, ci dice che sim-bàllo vuol dire mettere insieme mentre dià-ballo all'opposto significa dividere, separare. Dià-bolon...il nostro vecchio e povero diavolo, Satana in persona, perché per la teologia cristiana il Male è un persona, è innanzitutto” il Maligno”, è uno che si diverte (ma forse non si diverte per niente, è questo il punto tragico) a dividere, a separare e, infine, a contrapporre. Non è per l’et-et ma per l’aut-aut. Come si direbbe oggi, è uno che vive nella e della “polarizzazione”.

Ma senza perderci in troppa teoria, facciamo esempi concreti che è sempre meglio. Infatti il diavolo, per giunta, predilige l’ideologia, l’astrazione, è sempre “spiritualista”. Un esempio di approccio simbolico alla vita: il teologo Romano Guardini quando scrive che «le cose indicano se stesse, ma anche di più. Ogni avvenimento significa di più del suo puro accadimento». Un esempio opposto, diabolico: la battuta del personaggio del “Bianco”, l'intellettuale professore disincantato e nichilista, aspirante suicida, che apre Sunset Limited di Cormac McCarthy con la frase «Non significa nulla. Niente di quello che succede significa qualcos’altro». Il punto allora è il significato. Quella che vive la società occidentale contemporanea non è tanto una crisi dei valori, ma dei significati. Le cose, gli accadimenti “signi-ficano”, fanno segno, segnalano, rinviano a qualcosa “altro” che si trova “oltre”. Ecco perché la Chiesa cattolica spesso chiede di leggere “i segni dei tempi”. Se il mondo è un universo di segni, una foresta di simboli, allora il compito principale assegnato ad ogni essere umano è quello di leggere, decifrare. È un lavoro basato sull’attenzione, un lavoro da poeti. Ma se invece nulla significa qualcos’altro, come dice il “Bianco”, allora non muore soltanto la poesia, che vive di metafore e simboli, ma anche la vita stessa e la possibilità di una convivenza, di un dialogo, di un’alleanza tra i diversi abitanti di questo pianeta. L’alternativa è veramente il nichilismo. È questa la radicale domanda contenuta in questi versi del poeta polacco Miloscz:

– Quando morirò vedrò la fodera del mondo.
L’altra parte,
dietro l’uccello, la montagna, il tramonto.
Il vero significato che vorrà essere letto.
[...]
– Ma se non c’è una fodera del mondo?
se il tordo sul ramo non è affatto un segno
ma solo un tordo sul ramo, se il giorno e la notte
si susseguono senza badare a un senso
e non c’è nulla sulla terra, oltre questa terra?

Questa poesia s’intitola Il senso. Il senso, quella cosa che è l’essenza di ogni opera d’arte che proprio Guardini spiega quando afferma che «l’opera d’arte ha sì un senso ma non uno scopo [...] Non mira a nulla, ma significa; non vuole nulla, ma è» e «nel suo rinvio al futuro, a quel "futuro" puro e semplice che non può più essere fondato a partire dal mondo. Ogni autentica opera d'arte è essenzialmente “escatologica” e proietta il mondo al di là, verso qualcosa che verrà».

Charles Baudelaire nelle sue Nuove note su Edgar Poe osserva come «la sete insaziabile per tutto ciò che è al di là, e che rivela la vita, è la prova più viva della nostra immortalità. È insieme con la poesia e attraverso la poesia, e con e attraverso la musica che l’anima intravede gli splendori situati oltre la tomba; e quando una squisita poesia fa salire le lacrime agli occhi, queste lacrime non sono la prova di un eccesso di godimento, quanto invece la testimonianza di una malinconia irritata, di un postulato dei nervi, di una natura esiliata nell’imperfetto e che vorrebbe impadronirsi immediatamente, su questa terra stessa, di un paradiso rivelato».

L’alternativa è quindi tra senso e scopo. Quest’ultima sembra essere la parola più in linea con la tendenza della società attuale tutta improntata ad un funzionalismo per cui è lo scopo che qualifica e legittima ogni attività umana, scartando quelle azioni che sfuggono a questo schema. Ma è uno scarto pesante, che butta via il “meglio” dell’umanità, la sua leggerezza e libertà.

In fondo si tratta di essere romantici. Nel capolavoro di Ernst Lubitch Ninochtka, c’è una bella spia russa corteggiata dal viveur parigino Leon che la porta a casa sua a mezzanotte e le fa notare che a quell’ora le lancette sull’orologio combaciano e “metà di Parigi bacia l'altra metà”. La spia sovietica, glaciale, sentenzia che si tratta soltanto di un congegno meccanico per cui due volte al giorno le lancette delle ore e dei minuti finiscono per sovrapporsi. Di nuovo lo stesso schema: simbolici vs diabolici, se la vita è solo una catena di effetti, un meccanismo, una procedura per cui è importante solo che “funzioni” oppure se c’è “qualcosa in più”. Ancora una volta è necessario rispondere che ci vuole, per cogliere quella “eccedenza”, uno sguardo da poeta, da artista. Lo ha spiegato bene il romanziere Henry Miller quando parla del processo creativo per cui un pittore dipinge, un musicista suona, un poeta canta: «La questione, nel momento della creazione di una nuova opera d’arte, dunque, è: “In ciò che vediamo, c’è più di quello che riusciamo a vedere solo con gli occhi?”. E la risposta è sempre sì. Persino nell’oggetto più umile possiamo trovare ciò che cerchiamo — bellezza, verità, realtà, divinità — e queste qualità non le crea l’artista: lui le scopre soltanto, nel momento in cui inizia a dipingere». L'uomo simbolico cogliendo il nesso, il ponte, tra il visibile e l’invisibile, tra la “cosa” e il suo significato, intuisce l’eccedenza per cui «uno non si mette a cantare perché spera un giorno di apparire all’Opera; uno canta perché i suoi polmoni sono pieni di gioia». La vita è debordante, non si spiega solo in termini “utilitaristici”, esiste la “bontà insensata”, la dimensione della gratuità. L’eccedenza quindi che, attenzione non è l’eccesso. Due parole simili ma differenti: l’eccedenza è un dono, è il riconoscimento del dono generoso della vita, l’eccesso è una “posa”, un atteggiamento che si vuole adottare per una sorta di compensazione di un vuoto esistenziale. I simbolici colgono l’eccedenza, i diabolici corteggiano l’eccesso. I diabolici, infatti, dividono, separano e contrappongono e per fare tutto questo devono spingere il pedale sulla differenza, su ciò che divide anziché su ciò che unisce, e questa spinta porta inevitabilmente all’eccesso, alla creazione di una realtà polarizzata o, meglio, di una lettura polarizzata della realtà. In questo slittamento dall’eccedenza all’eccesso l’entropia è grande, quello che si perde è qualcosa che sta nel cuore del senso dell’umano.

Questo qualcosa ha a che fare con la pace. Nell’antichità il “simbolon” era anche il nome di un oggetto, spesso a forma circolare come un anello o una moneta, che veniva divisa in due e le due parti venivano consegnate ai re o ai rappresentanti di due popoli che avevano concluso un’alleanza. Il “simbolon” era il segno concreto di questa alleanza: quei due re, e i loro discendenti, dovevano mostrare il “simbolon” ogni volta che s'incontravano, spesso sul confine (perché questi, i confini erano spesso l’oggetto del contendere) e le due parti di quell’oggetto si “ricomponevano” evidenziando icasticamente quell’unità perduta e ricostruita, solo così si poteva confermare e riallacciare l’alleanza che portava alla pace e interrompeva la guerra. Era questo il bene prezioso che, simbolicamente e concretamente, si voleva mettere al di sopra di tutto, la pace. Era questo il valore espresso da quel “simbolon”. Ed è proprio quello che oggi sembra che l’umanità abbia smarrito.