
di Benedetta Capelli
«I segni sono fondamentali nella vita cristiana perché permettono di vedere e completare ciò che manca alla parola». È alla Bolla di indizione del Giubileo, Spes non confundit, che si è riferito l’arcivescovo Rino Fisichella, pro-prefetto del Dicastero per l’evangelizzazione, nell’omelia della messa celebrata nella basilica Vaticana nel pomeriggio di ieri, 2 aprile, al termine del pellegrinaggio giubilare dei partecipanti alla ii Assemblea sinodale delle Chiese in Italia.
Un pomeriggio iniziato con le testimonianze di speranza, in Aula Paolo vi, di chi aiuta i ragazzi in carcere, come don Claudio Burgio, cappellano dell’Istituto penale minorile Beccaria di Milano; di chi ha vissuto la malattia di un figlio, come Laura Lucchin, la mamma di Sammy Basso, scomparso ad ottobre 2024 a causa della progeria, una malattia genetica che provoca l’invecchiamento precoce; di chi ha speso oltre dieci anni della propria vita in missione in Uganda, come Giorgio e Marta Scarpioni.
Dopo il passaggio della Porta Santa, i pellegrini hanno partecipato alla celebrazione all’altare della Cattedra, introdotta dalle parole del cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), che ha voluto ringraziare l’arcivescovo Fisichella per l’accompagnamento anche nel cammino giubilare che è «un richiamo all’essenziale.
«La speranza — ha detto dal canto suo il pro-prefetto — non può essere limitata all’annuncio, ma ha bisogno di essere resa visibile e tangibile attraverso i segni che attestano la credibilità di ciò che annunciamo». In proposito ha citato infatti i segni che caratterizzano la rivelazione di Gesù: la moltiplicazione dei pani, la risurrezione di Lazzaro e la guarigione del cieco. «Il cammino sinodale — ha aggiunto — è un segno che siamo chiamati a cogliere per comprendere come la comunità cristiana, in questo periodo di radicale cambiamento culturale che tocca anche l’uomo nella sua essenza, possa essere una presenza significativa che testimonia l’amore del Padre». Un Padre che accoglie e non giudica al quale Gesù obbedisce in piena libertà, contemplando e agendo.
Modalità che sono insegnamenti per la vita cristiana. «Dov’è fisso il nostro sguardo?», ha chiesto l’arcivescovo. «Sull’agire del Padre e del Figlio? Oppure su noi stessi? Pensiamo di essere collaboratori di Dio? Oppure i padroni della nostra vita?». Il presule ha quindi messo in guardia dalla «tentazione tipica di una parte della cultura contemporanea che vede nell’efficienza la soluzione a ogni problematica sociale, politica ed ecclesiastica». «Non è così — ha proseguito — che possiamo essere una comunità che testimonia la risurrezione del Signore in un tempo in cui la speranza dovrebbe essere ravvivata e diventare fuoco che arde, piuttosto che una brace che sta per estinguersi».
«Eppure — ha sottolineato ancora monsignor Fisichella —, siamo diventati così timidi nel rendere attuale questa vita eterna che essa sembra scomparsa dai nostri discorsi, dalle catechesi, dalle nostre omelie, perfino quando dovrebbe essere annunciata in tutta la sua valenza e significato», perché «senza la speranza in questa vita eterna, in noi avremmo molto poco da offrire al mondo di oggi».
Infine il celebrante ha richiamato l’immagine dell’ancora, usata dai primi cristiani, per simboleggiare la speranza. «Rimanere aggrappati all’ancora è un’esigenza che accomuna l’intera comunità cristiana — ha detto —. Perché la prima a credere, a sperare, ad amare è la Chiesa».