Pellegrini di Speranza Storie nelle strade di Toronto e di Roma

Un paio di scarpe per Ahmed

 Un paio di scarpe per  Ahmed  ODS-030
05 aprile 2025

di Ciro Salvucci

Ahmed ha due occhi profondi e immensi come il mare. Come il mare che lo ha portato qui, in Italia.

Quando ha saputo che c’era un posto anche per lui su un barcone, dove erano già ammassate già ventisette persone, Ahmed si è sentito l’uomo più felice del mondo. Era felice di lasciare l’Egitto.

Più ci penso e più mi appare strana questa cosa: come si fa a lasciare la propria terra, la propria famiglia, gli amici, tutto... ed essere felici? In realtà una risposta non me la so dare, soprattutto dopo aver ascoltato la storia di questo ragazzo, poco più giovane di me, che in Italia ha conosciuto solo sfruttamento, solitudine e le miserie della vita di strada.

Sono stato ad ascoltarlo per tre ore, ma sarei rimasto accanto a lui per giorni interi. Ci eravamo incontrati il giorno prima, vicino a piazza San Pietro, mentre era in fila davanti alla Casa Dono di Maria dove alle cinque del pomeriggio le suore di Madre Teresa di Calcutta distribuiscono da mangiare alle persone che vivono in strada. Ahmed teneva in mano un foglio con l’indirizzo di un dormitorio. L’ho aiutato a chiedere informazioni alla suora sulla porta, che ci ha risposto che il dormitorio maschile era al completo. Allora abbiamo chiamato con il suo telefono la sala operativa sociale, sperando di trovare ospitalità nella tensostruttura aperta per il Giubileo nella vicina via delle Fornaci. Dall’altro capo del telefono mi ha risposto una voce gentile: «Mi dispiace, non c’è posto, digli di chiamare domani. Faremo il possibile per trovargli una sistemazione».

Domani… ma quando arriverà il tuo domani, Ahmed? Mentre mi faccio questa domanda, vedo che porta ai piedi un paio di infradito da spiaggia. E le scarpe? Ahmed mi racconta che gliele hanno rubate mentre dormiva per strada: non se ne è accorto, sprofondato in un sonno che non conosce più sogni, ma solo incubi.

Non è giusto che tu non abbia un tetto, un pasto caldo e neppure un paio di scarpe decenti. Te le porto io, domani. Un domani che sarà veramente domani..

Così, il giorno dopo, sono tornato da Ahmed con un bel paio di scarpe della sua misura, il 46. L’ho trovato seduto su un triangolo di prato, nascosto al traffico da un muretto e da un vecchio cipresso. Accanto a lui, lo zaino marrone e una coperta. Ora hai imparato a non lasciare in giro le tue cose.

Quando gli ho chiesto di parlarmi un po’ della sua famiglia, si è fatto serio. «Mio padre è morto — mi hai detto — e mia madre non c’è l’ho».

Sono rimasto scioccato a quelle parole.

Tuo padre è morto veramente?

«Sì, è morto davvero, sei anni fa».

E la tua mamma?

«Mia madre c’è, ma non la voglio sentire. E non voglio sentire neppure mio fratello».

Quanti fratelli hai?

«Due, uno è ancora piccolo».

Hai trovato qualche lavoro da fare qui in Italia?

Mi risponde raccontandomi le tante città in cui è stato in questi anni: Napoli, Barletta, Lecco, Roma… e dei lavoretti che ha fatto.

Il tuo ultimo datore di lavoro? «Era egiziano come me. Aveva un autolavaggio. Ma mi diceva che non ero capace a fare niente, che lucidavo male le macchine. Lavoravo 15 ore al giorno e pure 18 per 30 euro. E dalla paga mi scalava 250 euro al mese per il posto letto: una brandina in una stanza senza finestre insieme con altre sette persone».

Deve essere piaciuto ad Ahmed raccontarsi. Tanto che a un certo punto, guardandomi con i suoi occhi profondi e immensi, mi ha abbracciato e mi ha detto: «Ora tu sei mio amico, Ciro».

Tu qui in Italia hai degli amici, Ahmed?

«Avevo solo Said, ma beveva tanto, troppo. Una mattina un’autoambulanza lo ha caricato e poi non l’ho più visto».

Di cosa avresti bisogno?

«Di un lavoro, magari in un ristorante italiano. Mi piace lavorare nei ristoranti».

Mentre torno nel mio alloggio, spero e prego che Ahmed possa riuscire presto a lasciare la strada, a trovare un lavoro vero e una stanza con una bella finestra e tanta aria. Poi, squilla in telefono: è Ahmed. «Ciro — mi dice —, le scarpe che mi hai portato sono finite». In che senso finite? Non è necessario che risponda: voleva dire che sono troppo consumate. Eppure, quando ero andato a prenderle all’Help Center della Stazione Termini, le avevo scelte con attenzione. Avevo preso quelle che mi sembravano migliori, le più belle, le più colorate.

Rimedierò. Ora ho un nuovo amico da ricordare a Dio nelle mie preghiere. Proprio come Ahmed che ringrazia Dio per quello che ha: la vita!