
Alda Merini (Milano, 21 marzo 1931 – 1 novembre 2009) è una poetessa italiana, una delle più grandi. Dal 1964 fino al 1972 è stata internata in un ospedale psichiatrico; in seguito si sono alternati periodi di salute e malattia, probabilmente dovuti al disturbo bipolare diagnosticatole nel 1967. La sua esperienza ha dato vita a testi intensi, tra cui il suo capolavoro: «La Terra Santa». Marco Campedelli, «don Chiodo» per lei, che le è stato amico e ha ricevuto sotto dettatura telefonica molte sue poesie, la racconta nel libro «Il Vangelo secondo Alda Merini» (Claudiana).
Sul tavolo dell’obitorio dove sezionano le parole dei poeti, non hanno più ritrovato la poesia di Alda Merini. Come in una sorta di combustione divina sono rimaste delle bruciature sul sudario. Delle parole, nessuna traccia. Così immagino la risurrezione di questa poesia impertinente, il volo dell’uccello “dal bianco ventre gentile” che sfugge alle tagliole della critica e della religione. C’è chi ha sguinzagliato i segugi per rintracciare la poesia in fuga. Hanno messo sottosopra le cartelle cliniche di Alda, ansiosi di trovare nella malattia psichiatrica il codice segreto delle sue impronte. Ma sono fuori strada. Dovrebbero cercare piuttosto degli indizi nelle antiche tragedie, dove altre come lei hanno lasciato divine bruciature. È la stessa “mania” di cui sono colpite le donne del mito: la Cassandra di Eschilo, l’Antigone di Sofocle, la Medea di Euripide. Oppure nel fondo del vangelo, là dove Gesù viene chiamato il “folle”, il “fuori di sè” (ex-stasis), come è scritto nel più antico dei racconti evangelici, quello di Marco.
Ciò che genera stupore e perfino timore è la dismisura del verso che ti viene addosso e potrebbe schiacciarti. Le parole che si ribellano cioè alla burocrazia della riga, del quadrato, e sobbalzano, scappano dal controllo.
È la malattia borghese che ha colpito le parole, sotto il rigido controllo del potere. Nessun terremoto, nessun sconquasso, nessuna “catastrofe”, come lei riteneva fosse stato il Cristo per i mediocri calcolatori, possono turbare la falsa quiete dell’indifferenza. La poesia di Alda Merini invece è sfuggita a questo vero manicomio del controllo sociale ed accademico. Ha rifiutato la misura del possibile a favore della dismisura dell'impossibile. Solo questo le ha permesso di sintonizzarsi nel “fuori”, nel “divino eccedente”, nel paesaggio dell’invisibile. Così con questa rischiosa rincorsa è arrivata nella stanza segreta di Maria, fino a vedere l’azzurro di un’ala d’angelo e il rombo del suo motore divino. Lì Alda ha incontrato «la Madre,/ quella che con me/ mangiò la terra del manicomio/ credendola pastura divina/ quella che si legò ai piedi del figlio/ per essere trascinata con lui sulla croce…».
L’apparente paradosso è che la Merini sia arrivata alle vette, non rinnegando il corpo, ma attraverso sue “divine tastiere” (David Maria Turoldo). È il controllo del corpo infatti che genera il controllo della parola. Ma proprio attraverso il corpo Alda Merini evade dal carcere, dalle alte mura del controllo, dai recinti del “politicamente corretto”.
Solo così Alda entra nel corpo della Maddalena e in un piano di assi sovrapposti l’aggancia alla peccatrice: «Lo so, mi avresti stretta al cuore/ e tutte le piaghe/ che hanno inferto questi stupratori/ si sono richiuse/ (…) Come bruciavano le mie ferite, Signore./ (…) Ero così intatta, Signore,/ davanti al tuo sguardo/ che tu hai visto e scelto la prima discepola» (da Cantico dei Vangeli).
Questa sovrapposizione colpevole, di una visione patriarcale, in cui la peccatrice avrebbe tolto autorevolezza alla Maddalena, nella Merini diventa invece una sorta di riabilitazione poetica e politica delle donne, umiliate e violentate dal potere, una definitiva inclusione della donna nello spazio del divino.
Da qui, la Merini immagino possa lanciare la sua invettiva contro l’abitudine borghese di perimetrare i sentimenti e sfrattare di casa l’amore: «Ma voi, farisei, con le vostre ingiurie [...] Voi non capirete mai cosa sia/ una follia d’amore», perché «penso che tutti gli innamorati sono dei martiri, tutti gli innamorati sono in Cristo, tutti gli innamorati sono in Dio».
Nelle ore diurne e notturne, per molti anni sono stato raggiunto dalle dettature poetiche di Alda Merini. Era quella dismisura celeste che metteva inquietudine mista a una sorta di euforia. Era ogni volta un salto oltre lo steccato, quel tornare all’origine della poesia o alla poesia dell’origine. Quella parola fuori controllo, parente della parola divina.
Era la forza divina delle donne. Me ne resi conto quando accompagnai dalla Merini una giovane donna iraniana, che stava facendo la tesi su “La poesia di Alda Merini e la mistica sufi” (questa storia è narrata in una mia più ampia riflessione dedicata alla poesia di Alda, Il vangelo secondo Alda Merini, edito per Claudiana, Torino). Era il 21 maggio del 2008. La ragazza era Mahtab Ali Mohammadi Malaieri, sorda e cieca. Per comunicare con lei bisognava scrivere sul palmo della sua mano. Nel dialogo tra queste due donne sono stato testimone della combustione divina della poesia, che brucia le mani, del suo corpo roteante, di quel «Gesù dal cuore di donna» che Alda disegnava sul palmo della mano di Mathan, quel divino maestro che «trascinava il suo lungo strascico da sposa».
Quando morì mio padre Alda mi dettò una poesia in cui si rincorrevano morte e amore:
«Padre, il mio più grande peccato/ è stato di raccomandarmi a Dio/ perché tu non morissi/ (…) Io non riesco più a parlarti/ non avrò più a chi dire i miei segreti./ Sono tornato bambino./ Com’è gigante la morte/ di fronte a un uomo fanciullo” (17 agosto 2005).
Davanti alla “gigantezza” della morte, sentii tutta la dismisura del bambino, della sua spada di latta davanti all’incommensurabile. E da lì, scelsi anch’io tra il “borghese piccolo piccolo” e la misura “minima e immensa” della poesia, tra lo stare dentro il recinto del “buon senso” e l’“ex-stasis,” il divino fuori, la danza folle di Alda. Non me ne sono ancora pentito.
di Marco Campedelli
Teologo e narratore, amico di Alda Merini