DONNE CHIESA MONDO

Storie di donne, coraggio e libertà di parlare

«Pazza» è chi
rompe il silenzio

 «Pazza» è chi rompe il silenzio  DCM-004
05 aprile 2025

«È tra la donna che lei avrebbe voluto generare e me che la Cosa si è insediata. Mia madre mi aveva fuorviata e il suo lavoro era stato così perfetto, così profondo, che non ne ero conscia, non me ne rendevo più conto». La Cosa, la malattia mentale.

Marie Cardinal, la grande scrittrice franco algerina, l’ha raccontata nel suo libro Le parole per dirlo per averla vissuta. Anni di angoscia, paure, costretta in casa da una madre che le imponeva una camicia di forza di convenzioni e rinunce per comprimerla nel canone della “perfetta borghese”. Per lungo tempo una vita di silenzio.

Le parole Marie Cardinal comincia a trovarle che ha ormai 33 anni, quando nel 1961 – all’alba di quei Sixties così pieni di voglia di vivere e di sogni – scappa da una clinica psichiatrica, prende coraggio e entra nello studio di uno psicanalista a Parigi: le petit docteur che la salverà. Nessun farmaco, nessuna droga. Solo le parole per dire la chose.

La follia è una cosa che può incarcerare una esistenza. Bollarla. E da sempre, e ancora, viene usata come stigma per mettere a tacere, sottomettere, silenziare le donne.

«Quella lì pazzìa», è uscita di senno, dicono i mafiosi se una donna rompe l’omertà. Locas, matte, erano chiamate le madri di Plaza de Mayo, che erano solo donne folli d’amore per figli desaparecidos, spariti nelle prigioni della dittatura argentina degli anni Settanta.

Anche la adolescente analfabeta Bernadette Soubirous all’inizio fu accusata di pazzia e minacciata; nessuno le credeva quando raccontava le sue visioni della Vergine Maria nella grotta di Lourdes.

Ma la follia è stata, è, anche un crinale di libertà scelto dalle donne per essere se stesse, uno strumento per sfuggire al vincolo sociale di non poter parlare, tanto più in pubblico. Una alternativa alla convenzione. «Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva», scrive Michela Murgia nel suo libro Stai zitta.

Parliamo della follia femminile come ribellione, sfida alla normalità; come “tecnica” adottata per necessità da donne sapienti di ogni tempo, artiste, pensatrici, sante. Per sfuggire agli schemi. Per smascherare l’ipocrisia del potere, della società, anche della Chiesa.

«Non ci vuole niente, sa, signora mia, non s'allarmi! Niente ci vuole a far la pazza, creda a me! Gliel'insegno io come si fa. Basta che Lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza!» (Luigi Pirandello, Il berretto a sonagli)

Anche all’origine del femminismo le donne venivano considerate folli. Le suffragette erano di volta in volta isteriche, squilibrate, nel senso di sbilanciate e un po’ anarchiche, perché si muovevano rivendicando libertà, autonomia, uguaglianza.

Quando nel 1975 Le parole per dirlo di Marie Cardinal viene pubblicato, si intreccia subito con l’irruzione sulla scena pubblica della cosiddetta seconda ondata dei movimenti femministi, dopo l’era delle suffragette, e con il dibattito sulla riforma della psichiatria. In questo fermento generale, il rapporto tra le donne e la “follia” comincia ad essere esplorato nella sua dimensione sociale. Pian piano, emerge il legame tra il disagio femminile, liquidato come “pazzia”, e la difficoltà ad adattarsi a una struttura costruita sulla diseguaglianza di genere. La follia, in quest’ottica, diviene quello che Michel Focault definisce un atto di ribellione estremo contro la presunta razionalità dominante. Per questo spaventa tanto i custodi dell’ordine stabilito e viene da questi tanto duramente punita.

Tre anni prima di Marie Cardinal, la psicologa Phyllis Chelser aveva scritto Le donne e la pazzia, un’indagine sulle malattie mentali e il contesto statunitense all’inizio del Novecento, dove il marchio di “folle” era impiegato sistematicamente per rinchiudere quante erano considerate troppo libere e indipendenti. Donne creative, bizzarre, fuori dagli schemi asfissianti dell’epoca per le quali l’ascolto non era previsto: più semplice confinarle fuori dalla comunità e “curarle”. «Lo scivolamento nella patologia psichica è il prezzo pagato da diverse donne per sottrarsi ai canoni convenzionali previsti per loro», sostiene Wanda Tommasi, docente di Filosofia dell’Università di Verona ed esponente della comunità filosofica femminile Diotima, specializzata sullo studio del pensiero della differenza sessuale.

Nel suo La ragione alla prova della follia, edito da Liguori, analizza le vicende di autori che hanno spinto la ragione fino ai bordi della follia nell’intento di afferrare, con la scrittura, quella materia oscura la quale, tuttavia, è parte a pieno titolo della condizione umana. «Un caso significativo è quello di Helene von Druskowitz, filosofa, scrittrice e critica musicale austriaca, internata in manicomio per quasi trent’anni, fino alla morte nel 1918, a causa della sua misandria, sostanzialmente l’odio per gli uomini. Helene non era affatto pazza. Solo esprimeva un pensiero molto radicale: imputava agli uomini la causa della violenza della storia e sosteneva il separatismo fra i sessi».

Fin dall’antichità, il genere femminile è stato considerato più incline al disordine mentale. Non la follia nobile, frutto della comunicazione diretta con le divinità, come la telestiké descritta da Platone nel Fedro, una delle vie verso la felicità. Ekstasis la chiama l’antropologo Gilbert Rouget: un’alienazione della coscienza, raggiunta in silenzio, solitudine e immobilità, ed espressa attraverso allucinazioni, in grado di fare accedere la mente a conoscenze più profonde.

E pazzia come possessione era quella delle cosiddette streghe del Medioevo e, soprattutto, dell’età moderna. «Sarebbe stato meglio se fossero state considerate folli, o meglio, se fossero state ritenute capaci, come in effetti erano, di transitare liberamente fra il sogno e la veglia, fra la fantasia e la realtà, fra il visibile e l’invisibile» commenta Wanda Tommasi.

In chiaroscuro la posizione della Chiesa, per secoli unica deputata alle cure.

Da una parte: la follia letta come una possessione da cui ci si doveva allontanare, che si doveva allontanare; e quindi per quelle che non rientravano nei canoni, che sproloquiavano, che tiravano dentro Dio, il tremendo supplizio del rogo per evitare che l’anima posseduta si allontanasse dal corpo “malato”.

Dall’altra: la santa follia come manifestazione autentica di radicalità evangelica. Ecco dunque le visioni, le estasi, le profezie, i fenomeni considerati soprannaturali che riempivano di speranza e meraviglia le menti dei fedeli.

Un po’ strega, un po’ folle è l’eroina di Francia Giovanna d’Arco che viene bruciata appena diciannovenne per spegnere il suo fuoco riformatore, poi riabilitata e, sei secoli dopo, fatta santa.

E che dire dei brutti momenti passati dalle beghine, donne dedite alla preghiera e alle opere caritatevoli, spesso poetesse e scrittrici, che diedero vita a associazioni religiose al di fuori della struttura gerarchica della Chiesa cattolica? E delle catari, che preferivano chiamarsi semplicemente "donne buone", alle quali toccò l’accusa di eresia?.

Nella Francia del Trecento, la beghina Margherita Porete, religiosa e letterata, finì al rogo per aver rifiutato di ritirare il suo libro Lo specchio delle anime semplici, una opera sulla spiritualità cristiana.

Nel Ventunesimo secolo, la sofferenza psichica più diffusa nelle donne è la depressione: le colpisce in misura doppia rispetto agli uomini. «Sono più propensi a reagire a un evento doloroso, come una perdita o un abbandono – sottolinea Wanda Tommasi -, rivolgendo contro sé stesse la rabbia». In questo comportamento, ancora una volta, s’intravede una variabile sociale: l’espressione di forti emozioni negative, come l’ira, è poco incoraggiata nei modelli educativi che si basano sui canoni tradizionali di femminilità. «Le donne, inoltre – afferma l’esperta - tengono molto alle relazioni e, pur di non comprometterle, sono disposte a tacitarsi per compiacere coloro ai quali sono affettivamente legate». «Un filo rosso unisce i vari volti che, nel tempo e nello spazio, hanno incarnato la “follia” al femminile: dare forma a un desiderio debordante dalle misure e dalle mediazioni maschili, sottrarsi agli stereotipi mutilanti forgiati da altri e dirsi a partire da sé, facendo risuonare la propria voce autentica. Sia i gruppi di autocoscienza sia la pratica dell’inconscio, a partire dagli anni 1970 hanno consentito alle donne di scoprire che il senso d’inadeguatezza provato da una singola donna era condiviso anche da molte altre».

«Quante, poi, da Marie Cardinal alla poetessa americana Sylvia Plath, hanno “trovato le parole” per raccontare il disagio psichico da loro sofferto, rielaborandolo in forma letteraria, hanno trasformato lo stigma della follia, con cui erano state catalogate, in capacità creativa – conclude Wanda Tommasi -. In questo modo, hanno mostrato che l’espressione e la messa in comune dei vissuti più dolorosi potevano essere salvifiche per sé stesse e per quante potevano riconoscervisi».

Le tante, troppe vite femminili in cui riecheggia il verso di Alda Merini: «La mia vita è stata bella perché l’ho pagata cara».

di Lucia Capuzzi
Giornalista «Avvenire»