All’Antonianum di Roma un incontro sulla situazione in Repubblica Democratica del Congo

Una pace da ripensare

 Una pace da ripensare  QUO-065
21 marzo 2025

di Beatrice Guarrera

«Spesso non si capisce perché in un Paese di 2.345.406 chilometri quadrati e con più di cento milioni di abitanti quasi tutti sono poveri. Più del 70 per cento delle persone è povero. Perché?». Da questo interrogativo è partita la riflessione di Baderha Batumike Patient, dottorando in scienze sociali alla Pontificia Università Gregoriana e consulente dell’ambasciata della Repubblica Democratica del Congo presso la Santa Sede, intervenuto all’evento Ripensare la pace nella Repubblica Democratica del Congo, svoltosi ieri, 20 marzo, alla Pontificia Università Antonianum, a Roma. L’incontro, moderato dalla giornalista Virginia Saba, ha avuto l’obiettivo di delineare le ragioni di questa povertà e della guerra che ancora oggi tormenta il Paese, per poi arrivare a proporre soluzioni e immaginare orizzonti di pace.

Alla base dello sfruttamento sistematico a cui è stata sottoposta la Repubblica Democratica del Congo c’è la ricchezza del sottosuolo: cobalto (è il primo produttore mondiale), oro, diamanti, risorse minerarie metalliche. A ciò si aggiungono altri primati naturali: vanta la seconda foresta tropicale più grande del mondo, oltre che il bacino fluviale del fiume Congo, secondo per grandezza solo a quelle delle Amazzoni. Eppure dagli anni ’90 a oggi non cessano le guerre per accaparrarsi queste immense e preziose risorse mentre «le multinazionali approfittano della debolezza dello Stato per i loro scopi» e «l’estrattivismo esacerba le disuguaglianze», ha spiegato Batumike Patient.

In tale contesto un cammino possibile da percorrere è quello indicato nell’enciclica Laudato si’ dove Papa Francesco ha proposto un approccio olistico, sottolineando la necessità di lavorare per un’ecologia integrale, avendo chiaro il rapporto tra crisi ecologica e crisi sociale. «Bisogna introdurre un modello inclusivo bottom up, da sotto a sopra, per incoraggiare la lavorazione locale, il rispetto dei diritti umani, una revisione della governance, una opportuna redistribuzione della ricchezza», sostiene il dottorando: «L’unica alternativa è l’ecologia integrale».

Le ragioni profonde della guerra che si sta vivendo oggi in Repubblica Democratica del Congo sono da ricercarsi nella storia del secolo scorso, e in primo luogo nel genocidio in Rwanda, evento precursore della mancanza di pace attuale. Lo sostiene Jean-Claude Mulekya Kinombe, frate francescano, professore aggiunto di teologia fondamentale alla Pontificia Università Antonianum, il quale ha ripercorso le vicende del “Paese dalle mille colline”, fino ad arrivare alla costituzione del gruppo militare dei ribelli M23 che a gennaio ha preso la città di Goma. Mentre il Rwanda continua a negare ogni coinvolgimento con il gruppo, come sostenuto invece dai congolesi, segnali di distensione si sono visti nell’incontro del 18 marzo tra Paul Kagame e Félix Tshisekedi, i presidenti del Rwanda e della Repubblica Democratica del Congo, avvenuto a Doha con la mediazione del Qatar. Si tratta dei primi colloqui diretti sul conflitto in corso nelle province orientali della Repubblica Democratica del Congo dopo l’avanzata del gruppo ribelle filo-rwandese M23, al termine dei quali i due leader — riferisce Al-Jazeera — hanno chiesto un cessate il fuoco immediato.

Nel frattempo però le devastazioni sono incalcolabili. La situazione a livello sociale è drammatica, tra familismo e corruzione, disoccupazione dilagante e laureati che decidono di emigrare. «I nostri cervelli in fuga preferiscono morire nel Mediterraneo o nell’Oceano atlantico piuttosto che rimanere nella miseria», ha sottolineato Mulekya Kinombe, lanciando l’allarme sui potenziali rischi: «Il primo è di creare una guerra in tutta l’Africa centrale, il secondo è di aumentare l’odio tra la popolazione del Congo e il Rwanda perché vedono nei rwandesi i colpevoli». Ripensare la pace è un cammino difficile ma non impossibile, ha detto il docente: «Significa anche cercare una riconciliazione tra Repubblica Democratica del Congo e Rwanda, riconoscere gli errori e cercare verità». I passi da fare partono innanzitutto dal fermare la violenza, immaginare soluzioni alle questioni minerarie che tengano conto della dignità della persona umana e poi mettere l’accento sulla giustizia sociale e sulla solidarietà: «I congolesi stessi devono essere giusti nella gestione del loro paese, non soltanto favorire i politici che guadagnano tanti soldi». Ciò è possibile solo se «si riconosce nell’altro un fratello».

Parlando ai media vaticani, ai margini dell’evento, i due relatori, entrambi di origini congolesi, hanno delineato un quadro drammatico dalle notizie che giungono da familiari e conoscenti, soprattutto da Goma e Bukavu. «Il Congo è nel caos», da quando Afc e M23 si sono impadroniti del Nord Kivu e ora del Sud Kivu, ha spiegato Batumike Patient. «Non sappiamo chi uccide chi, perché il governo non sa gestire la sicurezza. I ribelli dicono che sono venuti a liberare la nazione ma la gente continua sempre a soffrire. La società congolese è ferma perché non c’è lavoro adesso, tutti sono nelle case, i mercati sono chiusi. Dunque non c’è vita. Tutte le scuole sono chiuse, i bambini sono a casa, hanno difficoltà ad accedere ai loro istituti, come anche gli universitari». Per uscire da questa situazione «bisogna lavorare insieme — ha osservato il dottorando — seguendo il Patto sociale per la pace e la convivenza in Congo proposto dalla Conferenza episcopale insieme alla Chiesa protestante, per far scaturire la pace».

«Ho finito gli studi nel 1998 nella scuola secondaria e c’era la guerra», ha commentato Mulekya Kinombe, «e oggi c’è ancora e sempre la guerra. Quello che so dalla mia famiglia che vive nell’est del paese è che hanno distrutto la casa di mio fratello con una bomba. Anche i miei familiari sono fuori dalle proprie abitazioni. A loro manca perfino da mangiare. Non sono buone notizie».