Il nuovo romanzo di Marco Follini dedicato alla figura del padre Vittorio

L’Italia prima del narcisismo

ALDO MORO CON LA FIGLIA A TERRACINA  (Bruni / GIACOMINOFOTO, TERRACINA - 1993-01-31) p.s. la foto e' ...
14 marzo 2025

Tra senso della misura e spinta della curiosità 


di Andrea Monda

Libro nel libro, la cosiddetta “Telemachia” è quella parte dell’Odissea, i primi quattro libri, in cui si racconta l’assenza di Ulisse da Itaca vista e vissuta dal figlio Telemaco, il «figlio di colui che combatte lontano». Figlio di un padre mai conosciuto, il giovane principe si mette alla ricerca di tracce paterne e parte per andare a parlare con i vecchi amici del padre, da Nestore a Menelao. È questa la prima suggestione che penetra nell’animo del lettore mentre si immerge nella decifrazione del nuovo romanzo di Marco Follini Beneficio d’inventario (Milano, Neri Pozza, 2025, pagine 191, euro 18): la storia qui raccontata assomiglia infatti proprio ad una “Telemachia”. Il protagonista quindi non è Marco/Telemaco ma il padre Vittorio che, proprio come Ulisse, ad un certo punto viene risucchiato suo malgrado in una guerra e si trova costretto ad imbracciare il fucile e a salire sulle montagne per unirsi alla Resistenza.

In un sistema di scatole cinesi anche il riluttante Vittorio è a sua volta figlio di un militare che è stato catturato e imprigionato in Texas e tornerà dagli Usa solo al termine della guerra e qui spunta l’altro grande protagonista del romanzo, oltre al duo padre/figlio: l’America. Per il partigiano Vittorio l’America è la nazione che sacrificando i suoi figli è venuta a liberare Paesi lontani, anche molto lontani come l’Italia. Agli italiani di quella generazione, schiacciati dal passato, l’America affascina perché appare come portatrice di futuro: «L’America incarnava soprattutto, almeno agli occhi di mio padre, un’idea di futuro. Sembrava (ed era) sempre un passo più avanti. Ci sollecitava a correre, anticipava le nostre tendenze, ci dava appuntamento a un crocevia più lontano. In una parola, era il progresso» (pagina 57).

Nell’ultima pagina del libro c’è scritto, come in ogni volume che viene pubblicato, che «il presente libro è stato stampato nel mese di febbraio 2025» e viene automatico da chiedersi cosa pensava l’autore mentre finiva di scrivere queste pagine di fronte agli ultimi stravolgimenti che stanno agitando le istituzioni statunitensi e quindi quelle mondiali; se insomma l’evoluzione convulsa che da anni il popolo e la politica Usa stanno vivendo ha in qualche modo condizionato la scrittura del romanzo. Perché per certi versi questo romanzo è anche una dichiarazione d’amore per il Paese americano, un amore che però si avverte (da Marco soprattutto, perché invece Vittorio il sentimento verso l’America non lo ha mai messo in discussione) come un amore ferito, tradito. Il punto di massima crisi del rapporto tra gli Usa e l’Italia coincide senz’altro con il dramma del rapimento, sequestro e poi uccisione di Aldo Moro, uno dei personaggi principali che si muovono dentro la vicenda raccontata, con mano sapiente e raffinata, dal politico e giornalista Marco Follini.

Narrando la storia di papà Vittorio, l’autore racconta tutta la parabola del Paese concentrandosi inevitabilmente su quella che fu chiamata la cosiddetta “Prima Repubblica”. Ma per farlo deve partire dagli anni della guerra. Follini, Marco, classe ‘54, fa come quel bambino de L’albero della vita di Terrence Malick che chiede alla mamma che lo sta mettendo a letto: «Mi racconti qualcosa di prima dei ricordi?». C’è qualcosa infatti, che non riveleremo perché questo libro è a suo modo anche un giallo, che spinge Marco/Telemaco sulle tracce del padre per decifrare un mistero, scandagliando e così rivedendo con attenzione la vicenda umana di Vittorio/Ulisse che si concluderà nell’estate del 2003, circa un decennio dopo il drammatico passaggio ad una nuova fase della storia repubblicana che non avverrà con dolce gradualità ma con bruschi strattonamenti come sottolinea nitidamente Follini: «La sua generazione aveva pensato di passare il testimone come fosse una nobile concessione verso giovani a cui veniva insegnato come stare al mondo. E invece quel testimone veniva ora strappato dai figli con poco garbo in nome di un progresso che concedeva ben poco all’istinto conservatorio e alle buone maniere dei loro padri. In quella accelerazione della storia mio padre sembrava trovarsi a disagio» (pagina 177).

Un omaggio al padre e alla sua generazione che si affacciava nel mondo, dopo l’orrore della guerra, in un periodo storico contraddistinto da molto illusioni e da qualche ingenuità, «un tempo da cui l’indiscrezione sembrava messa al bando (...) non era ancora il tempo di tutte le esibizioni, ostentazioni, esagerazioni che sarebbero state in un certo senso la colonna sonora degli anni seguenti» (pagina 48). Dopo gli anni eccessivi del fascismo e prima di quelli esagerati della seconda e terza repubblica quella di Vittorio è stata l’epoca della discrezione, del garbo, in una parola, della misura. Che non era solo una posa ma la capacità, di quella generazione, di incarnare «un certo spirito del tempo. Non fosse altro per aver sfiorato in gioventù stagioni assai più inclementi di quelle che stavano predisponendo a vantaggio dei propri figli» (pagina 85).

La mitezza, il modo defilato e dimesso con cui Vittorio, contestato in questo dal figlio, viveva il suo impegno politico nasceva dal «debito che quella generazione aveva con la sua storia. Il regime e poi la guerra s’erano presi i loro anni migliori». La misura scaturiva da quelle ferite ma non solo, c’era anche un motivo positivo legato al primato della politica: erano quelli gli anni della «religione della politica» scrive Follini, e chi si impegnava erano per lo più «persone lontane da ogni forma di fanatismo, da ogni culto dogmatico delle proprie ragioni. Erano tutti figli del primato della politica» (pagina 78). Una politica intesa come fatto umano, cioè complesso, in cui inevitabilmente «il bene e il male risultano sempre strettamente intrecciati», un mondo che «mescola il grano e il loglio e non si prova neppure a cercare di separarli con un taglio troppo netto. Così accade spesso che le cause migliori si facciano largo attraverso espedienti, complicità, perfino patti scellerati. E che il patto col diavolo risulti a volte l’unico modo per far progredire una causa che si pretende angelica o quasi. Paradossi di quella stagione, e forse di tutte le altre. Ma questa, per l’appunto, è la politica» (pagina 84).

Da questa concezione della politica ne discende che questa dimensione sia «da vivere con la giusta, accorta, prudente discreta misura». (pagina 95) Così fa Vittorio seguendo come punto di riferimento un partito e un esponente politico che del senso della misura erano campioni eccellenti. Scrive il figlio del padre che «s’era scelto un partito che viveva appunto di misure e di proporzioni (...) nella comune convinzione che il senso del limite sia quasi sempre una virtù e quasi mai una pavidità» (pagina 97). Follini parla di «senso del limite», che si potrebbe declinare anche come «senso del peccato» un concetto che si intuisce in controluce quando parla di Aldo Moro e del suo «pessimismo dell’uomo di fede che fa i conti con le imperfezioni umane e con il senso dei propri limiti» (pagina 115). Viene in mente la bella canzone Costruire di Nicolò Fabi che canta quello che esiste tra l’entusiasmo dell’inizio e quello della fine: «Nel mezzo c’è tutto il resto / E tutto il resto è giorno dopo giorno / Silenziosamente costruire / E costruire è sapere / È potere rinunciare alla perfezione». In quell’avverbio la cifra dell’esistenza di uomini che hanno esercitato il senso della misura e del limite, servendo il Paese e il partito senza protagonismo e pose scomposte.

Quanti anni luce distanziano quel mondo, che era l’Italia della seconda metà del Novecento, dalla nostra contemporaneità? Ma non c’era solo Moro che girava intorno alla discreta avventura di papà Vittorio, nel suo salotto romano circolavano tante persone, si potrebbe dire le più disparate. Il figlio si concentra in particolare su due grandi leader, opposti e quindi in qualche modo “convergenti”: lo stesso Moro e Marco Pannella, lo statista e il ribelle. «Moro lo statista governava il territorio della misura, il ribelle si affacciava vorace su tutti i territori dell’eccesso». Si può dire che con la morte del primo spariva anche la misura e all’Italia rimaneva l’eccesso del secondo. A quel Paese sprofondato nella sabbie dell’esagerazione e della “smisuratezza” i Follini, entrambi, non si sono mai appassionati. Forse perché mossi da una passione più forte, meno triste, più vitale. Come un alcolizzato è la persona che meno di tutti gli altri gusta il vino, così è per tutti gli altri campi della vita: è proprio la disciplina della misura, il «pertugio stretto» lo chiama l’autore nel libro, che permette alla vita di fluire e di lasciarsi gustare.

Il “misurato” Vittorio era tutto tranne che un uomo gretto, pavido, o rinunciatario, al contrario era un attento esploratore del mondo e delle sue nuove forme con cui, magari con accelerazioni improvvise, si manifestava. C’è una parola che viene spesso ripetuta nel romanzo che dice bene questa verità: «per mio padre la politica non era un’attività. Era una curiosità» (pagina 93). Quella curiosità che lo portava a frequentare, stimare e confrontarsi con persone come Moro e Pannella, infatti «mentre gli altri frequentavano tra simili, tutti intenti al loro gioco di squadra, come a rassicurarsi a vicenda della propria reciproca fedeltà e della propria vocazione clanica, a lui invece piaceva guardare oltre lo steccato, in cerca di emozioni che fossero più forti delle consuetudini» (pagina 140). Anche qui: quanta distanza dal mondo di oggi così autoreferenziale, in cui, sulla rete, siamo e veniamo tutti “profilati” su noi stessi.

Ma non era solo una atteggiamento intellettuale quello che spingeva l’ex-partigiano; c’era ben altro, una carica di empatia, come si dice oggi, che lo spingeva sempre a cercare «di “mettersi nei panni degli altri”, come diceva; di considerare il loro punto di vista come qualcosa che non meritava mai gli anatemi di una troppo netta disapprovazione» (pagina 111), tutto questo era per Vittorio «un punto d’onore», che lo portava a condurre il discorso pubblico in modo che «doveva sempre svolgersi con gentilezza, senza troppe asprezze, ascoltando e magari facendosi sorprendere dagli altri». Tutto questo non era mai «pianificato, e neppure teorizzato. Più uno stato d’animo che una strategia» (pagina 112).

Viene in mente la definizione che C. S. Lewis dà dell’uomo umile: «Non immaginatevi che un uomo davvero umile, se vi capiterà di incontrarlo, corrisponda a ciò che oggi si suole designare con quell’aggettivo: una persona untuosa e viscida, che dichiara a ogni piè sospinto di non essere nessuno. Probabilmente vi troverete di fronte un uomo vivace e intelligente, che si interessa davvero a ciò che voi gli dite. Se vi riesce antipatico, sarà perché vi sentite un po’ invidiosi di uno che sembra godersi così facilmente la vita. Costui non pensa all’umiltà: non pensa affatto a se stesso».

Anche Beneficio d’inventario è un “libro nel libro”, perché l’umile Vittorio aveva spesso accarezzato la fantasia di scrivere un libro ma tale era rimasta, una fantasia rimasta silente nel discreto cassetto dei sogni non realizzati. Il lettore del romanzo di Marco ritroverà quindi in esso anche il libro di Vittorio, un po’ come nell’ultima scena dello struggente film Big Fish di Tim Burton in cui il figlio si riconcilia con il padre e gli presta la voce nel raccontare il finale della sua vita. Forse Beneficio d’inventario non è il più bello dei libri di Marco Follini ma è il più «sconvolgente e commovente», come sottolinea Filippo Ceccarelli nella sua intelligente e appassionata prefazione, senz’altro è il più sofferto e personale e, quindi, anche universale.