Hic sunt leones

L’archeologia restituisce
in Africa la storia negata

 L’archeologia restituisce  in Africa la storia negata  QUO-243
25 ottobre 2024

Giudizi a dir poco temerari e comunque offensivi nei confronti delle culture afro vengono oggi puntualmente sconfessati. Infatti, importanti ritrovamenti restituiscono la verità negata per secoli da una narrazione che faceva dell’Africa un continente privo di una sua storia rilevante prima della colonizzazione europea.

Delle smentite a questo approccio di arrogante supponenza, intriso di pregiudizi a dismisura, dà un importante esempio l’Eredo di Sungbo, la più grande città medievale dell’Africa subsahariana. Si tratta di un maestoso complesso archeologico nel sudovest dell’attuale Nigeria: una fortificazione ad anello lunga più di 160 chilometri (99 miglia) formata da un fossato e da un terrapieno che in alcuni casi raggiunge i venti metri di altezza.

Questa struttura proteggeva una città-stato, un vero e proprio regno la cui identificazione non è stata proprio immediata. Basti pensare che il 23 maggio 1999, fece scalpore un articolo pubblicato dal londinese Sunday Times intitolato “Jungle reveals traces of Sheba’s fabled kingdom” (La giungla rivela le tracce del leggendario regno di Saba). La notizia venne ripresa da molti giornali tra i quali il Daily Mail che in un editoriale pose un quesito pervaso neanche tanto velatamente di quell’atteggiamento duro a morire: “La regina di Saba era davvero una donna di colore della Nigeria?”

Tuttavia, fu poi ampiamente dimostrato che si trattava di una fake news in quanto l’intero sito archeologico custodiva un segreto ancora più sorprendente da raccontare. Durante quello che in Occidente si definisce appunto Medioevo, la popolazione autoctona costruì proprio lì quello che potrebbe essere stato il più grande insediamento urbano che il mondo d’allora avesse mai visto. In termini di dimensioni, questa città potrebbe aver addirittura eclissato Baghdad, Il Cairo, Cordova o Roma.

Ma andiamo per ordine. Un tempo, gli studiosi ritenevano che il patrimonio storiografico della Nigeria meridionale facesse riferimento esclusivamente alla cultura Nok, a quella Igbo-Ukwu, dei regni Yoruba e dell’impero del Benin. Questa visione è stata ampliata dalle scoperte di un team di studiosi della Bournemouth University guidati dall’archeologo Patrick Darling. Dal 1994, il pool di ricercatori ha scoperto e mappato (ancora oggi parzialmente) i resti di un altro regno nigeriano, questa volta ricoperti da secoli di vegetazione forestale.

Il pool di Darling ha rinvenuto un enorme muro di terra, con sezioni circondate da fossati (nell’idioma dell’etnia Ijebu, Eredo significa appunto terrapieno, fossato o abbeveratoio). Si ritiene, alla prova dei fatti, che questo sbarramento difensivo sia un’opera concepita per unificare in un’unica città-stato un’area popolata, prima della sua realizzazione, da diverse comunità.

Il complesso è stato realizzato in laterite, un composto costituito da argilla e ossidi di ferro. Il fossato forma un anello irregolare attorno all’area dell’antico regno che comprende una superfice di circa 40 chilometri (25 miglia) di larghezza da nord a sud, con le pareti fiancheggiate da alberi e altra vegetazione. Migliaia di lavoratori, probabilmente schiavi, devono aver lavorato duramente per anni nella fitta foresta pluviale e nelle oscure paludi, attenendosi, sotto la supervisione di ingegneri e architetti, a un piano coerente che ne garantisse una geometrica armonia. Forse potrà risultare banale confrontare un monumento antico con un altro non necessariamente dello stesso periodo, ma gli archeologi stimano che la costruzione di questo antico insediamento, stando ai rilievi operati sul campo, richiese più sabbia da spostare di quella usata per costruire la piramide di Cheope, nota anche come Grande piramide di Giza (una delle Sette Meraviglie del Mondo Antico) e circa un milione di ore lavorative in più rispetto a quelle necessarie per la stessa costruzione fuori dal Cairo.

Le possenti mura indicano, dunque, il confine del regno originale, una vera e propria città-stato, edificata ben oltre millennio fa, governata da un leader spirituale chiamato “Awujale”. Nel corso degli scavi sono venuti alla luce i resti di un edificio di tre piani che potrebbe essere stata la reggia. All’interno della circonferenza muraria sono state individuate anche le rovine di quartieri residenziali, santuari e cortili. È possibile che migliaia di edifici di dimensioni più ridotte siano ancora nascoste nel sottosuolo o dalla folta vegetazione. La datazione al radiocarbonio ha finora stabilito che molte delle costruzioni e gran parte della cinta muraria risalgano al nono secolo d.C.

Occorre precisare che gli studi di Darling ebbero un antesignano in Peter Lloyd, il quale già negli anni Cinquanta del secolo scorso aveva esaminato il sito archeologico che comunque rimase poco conosciuto al di fuori della piccola comunità di residenti locali e specialisti della storia Yoruba. Nel 2017, Ade Olufeko, esperto nell’integrazione di sistemi antichi con quelli innovativi odierni, ha guidato un team freelance per realizzare un’indagine approfondita sulle mappature attualmente disponibili con l’obiettivo di comprendere il più possibile il significato storico dell'Eredo di Sungbo. Questo sforzo ha riportato il sito archeologico alla ribalta con il sostegno del mondo accademico e di aziende private. E va sottolineato che stiamo parlando di un regno precoloniale, considerando che i portoghesi arrivarono da quelle parti nel 1472, nodo strategico di scambio d’ogni genere di mercanzie trafficate lungo il corso del fiume Niger.

Come riferisce Marion Douet, su Le Monde, le ricerche archeologiche proseguono grazie al coinvolgimento di un team internazionale, di cui fanno parte tra gli altri ricercatori francesi e nigeriani. Si tratta di una sorta di caccia al tesoro resa possibile grazie all’utilizzo di una moderna tecnologia denominata Lidar, che attraverso la combinazione di raggi laser e onde radio, consente d’intercettare materiali d’interesse storico in ambienti coperti da folta vegetazione pluviale.

In un interessante articolo su Eredo di Sungbo, la ricercatrice nigeriana Joan-Mary I. Ogiogwa del Natural History Museum della Obafemi Awolowo University di Ile-Ife sottolinea che: “la dimensione dell’Eredo indica che le persone che lo hanno costruito disponevano di una chiara visione, un coraggio senza pari e grande acume industriale”, precisando che il progetto venne realizzato da una autorità, non sappiamo se maschile o femminile, che godeva di grande rispetto tanto da “motivare, mobilitare, controllare e coordinare un gruppo notevole di forza lavoro, attraverso una tecnologia capace di realizzare un complesso senza precedenti”. È dunque evidente che ancora una volta viene palesemente sconfessata la tesi di quanti hanno sostenuto e ahinoi ancora oggi si ostinano a farlo che il continente africano sia “sine historia”. Una prospettiva distorta, inficiata dalle perniciose logiche coloniali. La posta in gioco è alta, non foss’altro perché è importante, da un punto di vista squisitamente educativo, aiutare le giovani generazioni africane a prendere coscienza del patrimonio storico-culturale dei loro avi.

di Giulio Albanese