Vescovi, l’autorità
Quando «si parla di autorità dei vescovi si parla essenzialmente di servizio». Così il cardinale Robert Francis Prevost, prefetto del Dicastero per i vescovi, nell’ultimo briefing con i media organizzato presso la Sala stampa della Santa Sede, relativamente ai lavori sinodali, prima della lettura e dell’approvazione del Documento finale, prevista per sabato 25.
Invitato dal vice direttore Cristiane Murray a dar conto circa il ruolo dei pastori nelle loro diocesi, il porporato agostiniano ha spiegato come su questo molta attenzione, nelle discussioni dell’assemblea, «sia stata legittimamente data al processo di selezione». In effetti, ha spiegato, i criteri che portano a una determinata scelta sono contenuti nelle istruzioni che vengono consegnate ai nunzi apostolici: questi hanno già ora la possibilità di raccogliere informazioni, «parlando non solo con il clero diocesano, ma anche con i religiosi e i laici, al fine di identificare i migliori candidati».
Quanto alle funzioni e ai ruoli, poi, il cardinale ha chiarito come i vescovi non debbano vederli schiacciati solo sugli aspetti di gestione burocratica e amministrativa: «Anzi, essi sono principalmente i pastori del popolo di Dio, ed è con questo e in mezzo a questo che sono chiamati a lavorare con gioia». Certo, spesso, ha ammesso, si percepisce una «tensione tra il loro essere pastori e talvolta anche giudici, per esempio nelle questioni che riguardano la tutela dei minori». In ogni caso, «il vescovo non può trascurare le attività pastorali» e «deve conoscere effettivamente il suo popolo, per esempio trovando il tempo di sedersi con i consigli delle parrocchie per capire quali siano le necessità e i desideri di una comunità». Infine, il vescovo deve cercare i modi per raggiungere chi si trova ai margini della Chiesa: «Tutti, tutti, tutti», Prevost ha richiamato l’espressione di Papa Francesco alla Gmg di Lisbona, sottolineando come sia «nostro compito allargare la tenda e far capire che tutti sono benvenuti dentro la Chiesa». L’unica autorità è dunque il servizio, ha rimarcato: e «perché questo accada occorre anche cambiare alcune strutture di potere per renderle più vicine ai bisogni della diocesi».
In effetti, è intervenuta Myriam Wijlens, docente di Diritto canonico presso la facoltà di Teologia cattolica dell’Università di Erfurt, in Germania, «Papa Francesco ci ha chiesto con questo Sinodo di entrare in un processo di reset o riconfigurazione, per ottimizzare i nostri compiti missionari, alla luce del contesto che viviamo e dei carismi di ciascuno. Solo così potremo individuare una missione più credibile ed efficace». E in tal senso è «interessante notare come il Popolo di Dio fin dall’inizio del processo sinodale abbia chiesto un intervento pure sulle strutture canonistiche». Per esempio, è emersa una chiamata ad avere «incontri ecclesiali a tutti i livelli: dalla richiesta di rendere permanenti i consigli pastorali parrocchiali, al ruolo dei consigli provinciali plenari, ma anche delle assemblee continentali». E poi, «molto importante — ha chiosato — è l’aspetto della accountability, della responsabilità, trasparenza e valutazione: fin dal 2021 il Sinodo ha rafforzato la consapevolezza che i fedeli sono uniti insieme. È una accountability reciproca, che diventa una prospettiva teologica, non solo sociale: tutto ha a che fare con gli aspetti pastorali, non solo con le questioni che riguardano, per dire, la tutela dei minori o la corretta gestione finanziaria».
Quanto all’autorità dottrinale delle Conferenze episcopali, il sacerdote canadese Gilles Routhier, professore alla facoltà di Teologia e Studi religiosi dell’Université Laval (Québec), ha ribadito come questa non sia «una novità di questo Sinodo, e che non vada interpretata come un’autorità assoluta». Le Conferenze episcopali, per esempio, non possono dichiarare nuovi dogmi. «La loro è piuttosto un’autorità che si esprime all’interno di determinati limiti: ovvero sempre nella comunione con le altre Chiese e con la Sede di Pietro». Se tale autorità viene guardata in questa prospettiva, ha detto ancora Routhier, «tutto diventa semplice: vuol dire che i vescovi sono chiamati a implementare il magistero, e a insegnare la fede autentica, inculturandoli nello specifico territorio e popolo di cui sono pastori».
Padre Khalil Alwan, testimone del processo sinodale per le Chiese Orientali e il Medio Oriente, ha sottolineato come sia stata apprezzata la possibilità di partecipazione offerta per la prima volta anche ai non vescovi e ai laici: «Questa — ha detto — è stata la migliore dimostrazione del sensus fidei generale». In particolare, poi, nell’attivo coinvolgimento delle Chiese sui iuris e dei loro rappresentanti, è stata riscontrata e sperimentata la bellezza della diversità nell’unità della Chiesa universale. Ciò, ha aggiunto Alwan, «ha aiutato a costruire ponti di dialogo e relazioni». Inoltre, emozione ha provocato l’incoraggiamento alla speranza — «che non è un ottimismo superficiale» — proveniente da tanti segni manifestati dal Papa verso quanti vivono situazioni di dolore per il conflitto in Medio Oriente: «la lettera ai cattolici del 7 ottobre scorso; la canonizzazione degli 11 martiri di Damasco; la costante attenzione per la vita e le sofferenze dei cristiani; il chiedere che la comunità internazionale si impegni affinché si giunga al cessate-il-fuoco».
Spazio, come di consueto, è stato poi riservato alle domande dei cronisti. Al prefetto Prevost è stato chiesto in che misura il Sinodo può aiutare a ridurre tensioni e polarizzazioni: «Credo che ciò che viviamo nella Chiesa — ha risposto — sia il riflesso di ciò che viviamo nella società». Alcuni temi che «rientrano in un quadro più ampio» sono stati messi nelle mani dei gruppi di studio e «non possiamo aspettarci soluzioni istantanee. D’altro canto — ha proseguito — il Sinodo ha a che fare con la spiritualità» è un nuovo modo di fare le cose nella Chiesa, un modo per «sederci insieme parlandoci senza violenza» né odio per «superare tensioni che possono esistere nella Chiesa o fuori di essa». Il Sinodo, ha ribadito, «non dà risposte specifiche a domande specifiche» ma ha a che fare con un «processo di conversione» che porta a un modo nuovo di rispondere alle sfide.
Sollecitato sulla possibilità che le conferenze episcopali stabiliscano nei loro territori una dottrina non conforme al Magistero, il porporato ha evidenziato prima di tutto alcune diversità nelle traduzioni dell’Instrumentum Laboris, perché «in inglese sembra suggerire che le conferenze hanno autorità dottrinale specifica, senza definire cosa sia, mentre in italiano e spagnolo si parla di “qualche autorità”». Rispondendo sulla possibilità che alcune conferenze possano decidere di avvicinarsi a un documento in un determinato modo — in riferimento alla domanda, nella quale veniva citata Fiducia supplicans — il cardinale Prevost ha chiarito che i presuli della conferenza episcopale avevano dato conto di una situazione culturale specifica, in Africa, che «non permetteva l’applicazione di questo documento» laddove, ad esempio, è prevista la pena di morte per chi vive relazioni omosessuali. «Siamo in mondi completamente diversi — ha riflettuto — e queste differenze sono a motivo del fatto che le Conferenze episcopali devono avere una certa autorità rispetto a dire come realizzeranno una cosa nella realtà in cui vivono».
A tale proposito Wijlens ha rimarcato che «nel diritto canonico esiste lo jus remostrandi, ossia il principio per cui un vescovo o in una Conferenza possono dire “grazie ma questa cosa non funziona per il nostro territorio”». Stimolato su eventuali conflitti tra sinodalità e principio del primato, il cardinale Prevost ha ribadito che «sinodalità non significa che diventiamo un’assemblea democratica che esercita la propria autorità nella Chiesa; il primato è di Pietro e del suo successore, il Papa, che consente alla Chiesa di continuare a vivere la comunione in modo molto concreto». Ha poi riferito di un aneddoto sentito al Sinodo: alcuni «monaci buddisti, giunti per incontrare il Santo Padre, hanno ammesso di essere un po’ gelosi perché in nessun’altra parte del mondo si trova l’esperienza di una comunità mondiale basata su un principio di unità espresso in modo così chiaro». Certamente, ha aggiunto, «dobbiamo fare attenzione: il Papa ha autorità su tutta la Chiesa, ma ha chiarito che il suo ministero è a servizio degli altri e ritiene che l’approccio all’esercizio del servizio nella Chiesa, se sinodale, rende possibile, a chi si trova a guidare gli altri, di comprendere come esercitare tale autorità. La sinodalità dunque, pur avendo un grande impatto, non toglie nulla al primato».
Rispondendo a una domanda sul ruolo dei vescovi in Amazzonia, che in alcuni casi sembrerebbero non sostenere il lavoro dei laici nella pastorale sociale, il cardinale Prevost ha risposto che «il Sinodo incoraggia tutti i vescovi a rispondere alle esigenze specifiche in ogni area». A proposito dell’esigenza che le conferenze episcopali – in particolare in riferimento a quella canadese, citata nella domanda – guardino alla dimensione pastorale, e sulla misura in cui il Sinodo può far sentire più forte la voce dei vescovi, Routhier ha dichiarato che «se si vuole dare una nuova energia alla conferenza episcopale è per annunciare il Vangelo inculturato nella vita cristiana. Se non hanno questa competenza non potranno evangelizzare, non è solo una questione tecnica».
A un interrogativo sulle assemblee continentali, e sulla possibilità, dal punto di vista canonico, di renderle obbligatorie, Myriam Wijlens ha risposto sottolineando la forza delle strutture continentali asiatiche e americane rispetto, ad esempio, al contesto europeo. Ha poi riferito la propria esperienza, come redattrice del documento di Praga — «siamo stati in grado di riunire 39 conferenza episcopali e scrivere un documento in 4 giorni» — e quando, prima del Sinodo, ha incontrato altri quattro partecipanti: «Abbiamo scelto l’Austria come luogo di incontro centrale, e ci siamo ascoltati reciprocamente, tutti in grado di mostrare paure, ferite e speranze».
Infine, sul meccanismo di selezione dei vescovi, Prevost ha chiarito il ruolo fondamentale del nunzio apostolico, che «guarda alla scena locale e individua il candidato migliore». Oltre all’odore delle pecore, un criterio «significativo ma non l’unico» è la leadership, perché «in una comunità possono esserci buoni sacerdoti ma senza un leader questi girano in circolo». Ancora, ha aggiunto, il candidato deve «voler vivere il Vangelo per essere parte della missione della Chiesa: la fede, la vita di preghiera, un senso di spirito in comunione con tutte le persone di buona volontà, sono criteri fondamentali — ha concluso — per capire chi possa essere preso in considerazione per la nomina a vescovo».
A un’ultima domanda, sul metodo sinodale, Ruffini ha chiarito che è sempre lo stesso, quello delle conversazioni nello Spirito: «C’è clima di preghiera, libertà e ascolto, in cerca di consenso. Tutto avviene in modo molto più semplice di quanto si possa immaginare, anche quando le posizioni sono diverse, si è alla ricerca, nel discorso dell’altro, di quel pezzo di verità che ciascuno di noi sa di non possedere del tutto».
di Roberto Paglialonga
e Lorena Leonardi