Il conflitto dimenticato
che dissangua e affama
il Myanmar

Members of the Ta'ang National Liberation Army (TNLA) walk along a road in Hsipaw on October 15, ...
23 ottobre 2024

Sono sempre più gravi le sofferenze che la stremata popolazione civile del Myanmar sta vivendo dal 1° febbraio del 2021, quando le forze armate del Paese (Tatmadaw) hanno effettuato un colpo di stato, prendendo il potere con la forza, defenestrando il governo civile democraticamente eletto e arrestando, tra gli altri, il presidente, Win Myint, e il consigliere presidenziale e ministro degli Esteri, il premio Nobel per la pace (1991), Aung San Suu Kyi. Da allora, in un contesto caratterizzato comunque da violenze e tensioni mai sopite, si è scatenata una sanguinosa battaglia tra miliziani etnici armati — riuniti successivamente in un’alleanza — e la giunta militare golpista, con un bilancio di oltre 50.000 vittime, tra le quali 103 prigionieri politici morti in carcere, e circa 2,3 milioni di sfollati.

Un conflitto interno, privo della dovuta attenzione internazionale, senza al momento nessun tentativo di arrivare a una soluzione pacifica, che sta pesantemente colpendo soprattutto i civili inermi e dissanguando la Nazione. I dati forniti dalla Banca mondiale e delle organizzazioni umanitarie sono eloquenti nella loro drammaticità. Oltre il 75 per cento dei 55 milioni di birmani vivono oggi in condizioni di disagio economico, con 13,3 milioni di individui prossimi alla fame. Per l’Unicef, poi, più di 5 milioni di minori hanno bisogno di assistenza umanitaria e 7,8 milioni di adolescenti non hanno istruzione. L’economia è al collasso, con un tasso di disoccupazione pari al 40%. Il protrarsi del lungo conflitto — che Papa Francesco ricorda spesso nei suoi appelli per la pace — sta dunque incidendo pesantemente sull’economia, aggravando la povertà.

Nei giorni scorsi, le milizie etniche del Paese del sudest asiatico — che combattono per un’autonomia regionale e per l’applicazione di un sistema federale al governo del Myanmar — hanno respinto un invito a partecipare a dei colloqui di pace avanzato dalla giunta militare, guidata dal generale Min Aung Hlaing. Per tutta risposta, l’esercito ha ripetutamente bombardato un mercato rionale della città di Lashio, la capitale dello Stato di Shan, uccidendo almeno due civili.

Il National unity government (Nug), il governo in esilio istituito dai legislatori dell’esecutivo democraticamente eletto e rovesciato nel 2021, ha fatto presente che in più di un’occasione, assieme ai gruppi di opposizione, ha proposto alla giunta un piano per la pace, sempre bocciato. Il cessate il fuoco proposto dal Nug include una serie di precondizioni che i militari avrebbero dovuto accettare affinché i colloqui potessero iniziare, tra cui la fine di qualsiasi tipo di coinvolgimento nella politica da parte dell’esercito, il controllo civile sulle forze armate, l’istituzione di una nuova unione federale democratica basata su una Costituzione che riflettesse valori federalisti e democratici e l’introduzione di un sistema di giustizia di transizione. Il conflitto, dunque, prosegue, impattando anche sulle tradizionali rotte commerciali regionali, data l’importanza strategica del Myanmar, che fa da ponte tra l’Asia meridionale e il sudest asiatico.

Secondo quanto annunciato dai vertici militari, nuove elezioni dovrebbero tenersi nella prossima estate. Ma vista la situazione nel Paese, sembra impossibile che potranno svolgersi in maniera libera, regolare e in un contesto di sicurezza.

I generali hanno effettuato il colpo di stato denunciando presunte irregolarità nelle elezioni del 2020, che avevano visto la netta vittoria della Lega nazionale per la democrazia, di Myint e di Suu Kyi, sul Partito dell’unione della solidarietà e dello sviluppo, vicino al Tatmadaw, temendo che le previste riforme costituzionali riducessero il loro enorme potere all’interno dello Stato. Infatti, ai militari viene assegnato di diritto il 25 per cento dei seggi in parlamento, scelti dal ministero della Difesa.

In questo ambito senza una conclusione pacifica, si inserisce anche la drammatica situazione della minoranza etnica musulmana dei rohingya, che continuano inesorabilmente ad essere discriminati. E per questo costretti alla fuga da un Paese che non li vuole.

di Francesco Citterich