Difensore degli ultimi
Il capitolo 25 del Vangelo di Matteo, quello delle opere di misericordia, era la sua bussola. Il mandato di Cristo — «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me» — la cifra del suo pensiero. L’«opzione per i poveri» il suo assillo. Nella notte di ieri, martedì 22 ottobre, è morto nel convento di San Domenico a Lima (Perú) Gustavo Gutiérrez, teologo e religioso domenicano considerato «padre» della Teologia della Liberazione. Aveva 96 anni. Una vita lunga, trascorsa a studiare, a pensare, riflettere, a parlare e spesso a lottare. Lottare per un pensiero teologico talvolta criticato o guardato con sospetto, ma che, come affermava lui, affondava le radici in nient’altro che il Vangelo. Quella Buona Notizia e il suo messaggio dirompente che al primo posto ci sono i poveri, gli ultimi, i semplici.
È stato lui a coniare l’espressione «opzione preferenziale per i poveri», poi integrata nel Magistero della Chiesa come cammino fondamentale per vivere la fede. Giovanni Paolo ii riconobbe infatti «che l’opzione preferenziale per i poveri non è esclusiva né escludente, ma è ferma e irrevocabile».
Tanti i ricordi che si avvicendano in queste ore su quest’uomo che «piccolo com’era, con la sua piccolezza ha saputo annunciarci il Vangelo con forza e coraggio», come scrive in una nota di cordoglio l’arcivescovo di Lima, il cardinale eletto Carlos Castillo Mattasoglio. Tante anche le immagini che tornano alla mente, a cominciare da quella simbolica dell’11 settembre 2013, quando Gutiérrez celebrò la messa a Santa Marta insieme a Francesco, Papa da circa sei mesi. Loro due, l’uno a fianco all’altro, all’altare della cappellina della Domus vaticana.
«Grazie per la sua testimonianza» era quello che Gutiérrez disse al Pontefice argentino, come confidava in una lunga intervista per «L’Osservatore Romano», pubblicata proprio l’11 settembre 2013. Nello stesso colloquio il domenicano chiariva le direttrici della sua teologia, «piena di risorse» perché il suo centro — la povertà — era «sempre lì, sempre più urgente». E non si tratta di «poverologia», spiegava: «Bisogna chiarire che il termine povertà è complesso, poiché c’è la povertà reale, che riguarda la situazione di chi non conta niente, di chi è insignificante, per ragioni economiche ma anche per cultura, lingua, colore della pelle, o perché appartenente al mondo femminile che è tra i più penalizzati».
Per i 90 anni del religioso, nato nel 1928 a Lima, Papa Francesco gli aveva inviato una lettera, sottolineando il «servizio teologico» e ringraziandolo per le «fatiche» e il modo di «interpellare la coscienza di ciascuno, affinché nessuno resti indifferente di fronte al dramma della povertà e dell’esclusione». L’arcivescovo Castillo Mattasoglio, nella succitata nota, osserva che Gustavo Gutiérrez «ha accompagnato la Chiesa per tutta la sua vita, rimanendo fedele nei momenti più difficili, ricordandoci sempre che il vero pastore deve prendersi cura delle sue pecore, soprattutto delle povere».
«Ringraziamo Dio — aggiunge il presule di Lima — per aver avuto un fedele sacerdote teologo che non ha mai pensato al denaro, ai lussi, o a qualsiasi cosa che sembrava credersi superiore».
Numerose le opere scritte dal teologo in queste ultime quattro decadi, a cominciare dalla principale Teologia della liberazione, edita nel 1971. In essa, ex studente di medicina e letteratura in Perú, poi di psicologia e filosofia a Lovanio, in Belgio, e ancora di teologia all’Università Cattolica di Lione, a Roma e a Parigi, teorizzava una liberazione politica e sociale, cioè l’eliminazione delle cause immediate di povertà e ingiustizia; una liberazione umana, cioè l’emancipazione di emarginati e oppressi; una liberazione teologica da egoismo e peccato. Il dolore sociale dell’America Latina, gli insegnamenti del Concilio e, come detto, il costante richiamo al Vangelo animavano queste riflessioni poi esplicitate in numerosi altri volumi.
Uno degli ultimi era Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia della Chiesa (Edizioni Messaggero – Editrice Missionaria Italiana), pubblicato nel 2013 e scritto con l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, il cardinale Gherard Ludwig Müller. Teologi, vaticanisti, addetti ai lavori accolsero il libro come un fatto singolare: un’opera a quattro mani tra uno dei maggiori esponenti della Teologia della Liberazione e il prefetto di quell’ex Sant’Uffizio che proprio su questa corrente si espresse con due istruzioni negli anni ’80. Tra i due vi era, però, un’amicizia pluriennale oltre che la comune preoccupazione per lo sviluppo dell’economia mondiale e della teologia europea. Lo spiegarono loro stessi a Roma, in un’affollata presentazione in Via della Conciliazione, dove il domenicano parlò di una «Chiesa samaritana», sintesi dell’idea di servizio mutuata dalla parabola del buon samaritano cara a Papa Francesco. Una parabola che, disse il teologo, spinge a riflettere su «Chi è il mio prossimo?» ma anche su «Chi si è fatto prossimo?». Müller, da parte sua, condivise il percorso che lo ha portato ad avere una particolare sensibilità per il tema della povertà: dalle umili origini a Magonza, passando per la sua esperienza negli anni ’80 in mezzo a gente senza cibo, acqua, vestiti e cure mediche, fino all’episcopato a Ratisbona, con tanti sacerdoti provenienti dai Paesi poveri del mondo. Esperienze dalle quali il cardinale aveva maturato la convinzione che l’azione della Chiesa non può che essere di evangelizzazione ma anche di liberazione.
Ed è proprio Müller a consegnare un commento ai media vaticani per la morte di colui che definisce «uno dei più grandi teologi di questo secolo». «È il padre della teologia della liberazione in senso cristiano, non solo in senso sociologico, ideologico, politico, ma integrale — afferma il porporato tedesco —, questo è presente e rimane nella riflessione teologica della Chiesa».
Un altro ricordo carico di affetto e stima giunge dal cardinale Pedro Ricardo Barreto Jimeno, arcivescovo emerito di Huancayo, che con Gutiérrez ha trascorso gli ultimi tempi. «L’ho trovato molto calmo, perché mi ha detto che ha vissuto momenti difficili, ma che era sereno e pieno di speranza. Si sentiva una persona ispirata, diceva che era valsa la pena ad aver lavorato e fatto tutto quello che ha fatto nella vita». Barreto riporta pure un aneddoto: «Un giorno era molto debole, a un certo punto spontaneamente mi sono tolto la croce pettorale e gliel’ho messa sul petto. Lui all’inizio era perplesso, poi ha sorriso. Non l’ho fatto come un privilegio, piuttosto come espressione di ciò che lui, per fedeltà alla Chiesa, ha sofferto dentro. Ha vissuto la passione di Cristo nella Chiesa con insulti, negazioni... Pertanto questa croce è un segno di resurrezione».
di Salvatore Cernuzio
Come il domenicano spiegava il suo pensiero
Meglio i poveri
Nel 2015 Gutiérrez pubblicò in Italia il libro “Perché Dio preferisce i poveri” (Bologna, Emi). Ne riportiamo qui di seguito un breve stralcio.
Sin dagli albori del cristianesimo sono emerse due fondamentali correnti di pensiero riguardo la povertà; entrambe possono essere ricondotte ai Vangeli e alla testimonianza di Gesù Cristo. La prima si concentra sulla sensibilità di Gesù verso i poveri e la loro sofferenza. Secondo Gesù i poveri venivano prima di tutto: bambini, donne, prostitute e ammalati. Seguire Gesù significava quindi essere aperti ai poveri e impegnarsi a fare qualcosa per alleviare la condizione scandalosa in cui erano costretti a vivere. La seconda linea di pensiero che deriva dal Vangelo, invece, è che lo stesso Gesù aveva vissuto una vita di povertà, e che quindi i cristiani, sin dalla loro origine, avevano capito che per essere discepoli avrebbero dovuto in qualche modo vivere anche loro una vita di povertà.
Entrambe le correnti di pensiero sono vere ed evangeliche. Tuttavia, dobbiamo interpretare questi due punti di vista a partire dal nostro contesto storico e dalla nostra vita.
In un certo modo la prima prospettiva si ritrova nella versione di Luca delle Beatitudini: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» (6, 20). La seconda prospettiva è più vicina al pensiero di Matteo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (5, 3). Penso che entrambe le linee di pensiero — la povertà come scandalo e la povertà di spirito — possano esserci utili, nonostante il loro significato debba essere attualizzato nel nostro periodo storico.
Da circa un secolo a questa parte è emersa una nuova nozione di povertà. Tale nozione ha molteplici radici. Una riguarda la complessità della povertà e la sua diversità. Con questo intendo dire che la povertà, nella Bibbia e nella nostra epoca, non è una questione meramente economica. La povertà è molto di più di questo. La dimensione economica è importante, primaria forse, ma non è l’unica. Ve ne sono altre: culturali, razziali, etniche e di genere, solo per citarne alcune.
Voglio quindi che sia chiaro che, quando parlo di povertà e di poveri, non ne sto solamente parlando a livello economico. Quest’ultimo aspetto è importante, ma è, appunto, solo un aspetto. La povertà è stata chiaramente il punto di partenza della teologia della liberazione, anche se non ne avevamo compreso appieno la complessità o la varietà. In questo nostro tempo le agenzie internazionali, come per esempio la Banca mondiale, portano avanti una discussione sul concetto di multidimensionalità della povertà. Il termine usato è difficile, ma l’idea è la stessa. La multidimensionalità compare nei rapporti sulla povertà nel mondo.
Per questa ragione, nel contesto della teologia della liberazione e nonostante le nostre limitazioni, il concetto di povertà che avevamo originariamente elaborato rimane valido ancor oggi. Ci riferivamo ai poveri come a non-persone, ma non in senso filosofico, poiché è ovvio che ogni essere umano è una persona, bensì in senso sociologico; i poveri, cioè, non sono accettati in quanto persone dalla nostra società. Sono invisibili e non hanno alcun diritto, la loro dignità non viene riconosciuta. Li abbiamo anche definiti “insignificanti”. Insignificanza, invisibilità, mancanza di rispetto sono ciò che i poveri hanno in comune. Nello stesso tempo, queste complessità in comune sono diverse tra loro. Il senso di non-persona può essere causato da vari pregiudizi: razziali, di genere, culturali, economici e così via. La caratteristica che accomuna i poveri nella nostra società è semplicemente il sentirsi e l’essere invisibili e insignificanti.
Un altro punto importante e relativamente recente è che la povertà oggi è un fenomeno della nostra civiltà globalizzata. Per secoli i poveri sono stati più o meno nostri vicini, vivevano di fianco a noi in città e in campagna. Tuttavia oggi abbiamo realizzato che la povertà va ben al di là del nostro sguardo, è un fenomeno globale, se non addirittura universale. Tutto ciò è importante perché, se leggiamo i libri di spiritualità, di morale o di liturgia del passato, vediamo subito che quando gli scrittori affrontavano il tema della povertà e l’obbligo morale di ciascuno verso di essa, parlavano solo di come aiutare direttamente il povero, quello che ci era vicino, che era il nostro prossimo. Oggi invece dobbiamo renderci conto che il nostro prossimo è sia vicino che lontano. Dobbiamo capire che la relazione di “vicinato” è il risultato del nostro impegno.
di Gustavo Gutiérrez