Tutto il Popolo di Dio
Il Popolo di Dio non è la semplice somma dei battezzati ma il noi della Chiesa. Su questo presupposto il Forum teologico-psatorale svoltosi ieri pomeriggio, 9 ottobre, presso la Curia generalizia dei gesuiti, ha creato una opportunità di approfondimento. Thomas Söding, professore di Nuovo Testamento alla Facoltà teologica cattolica della Ruhr-Universität Bochum e vicepresidente del Cammino sinodale della Chiesa cattolica in Germania, ha insistito su una missione inclusiva, attrattiva, liberante, in cui non vi sia pretesa di controllare la fede del popolo ma di renderla possibile.
Le aspettative da parte dei fedeli laici che desiderano contribuire fattivamente alla vita della Chiesa sono in aumento: «Si aspettano di essere ascoltati e chiedono più trasparenza» ha detto. A costoro bisogna dare delle risposte.
Anche il sacerdote Ormond Rush, associato e lettore presso l’Australian Catholic University, a Brisbane, e consultore della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi, ha sottolineato la valenza inclusiva della Chiesa, illustrando che il Popolo di Dio è soggetto interpretante, condizionato dal tempo e dallo spazio, soggetto sacramentale.
In virtù di queste connotazioni, parlare di interpretazione del Vangelo per applicarlo nelle varie Chiese locali non vuol dire non essere aderenti al messaggio di Cristo. Ha citato il concilio di Calcedonia del v secolo per sottolineare la realtà divina e umana della Chiesa, aspetto che deve far considerare la sinodalità né come un processo meramente democratico (la maggioranza vince) né, d’altra parte, come un processo meramente consultivo (solo la gerarchia può decidere).
«Dobbiamo ritrovare il legame tra diritto, teologia e vita» ha affermato la canonista Donata Horak, membro del Consiglio di presidenza del Coordinamento delle teologhe italiane. «Qualsiasi riforma si farà, bisognerà farla nello spirito dell’autentica originaria volontà del fondatore, Cristo» ha sottolineato. Il fine è infatti «rendere il Vangelo credibile per relazioni giuste e una convivenza umana in cui ci ritroviamo tutti fratelli e sorelle». Le riforme, ha aggiunto, non devono essere intese «per autoconservarci, per imporci, per reiterare, per difenderci dal mondo, ma per Lui, per Cristo che cercava di liberare le vite». Tutti, avendo la funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, sono corresponsabili alla missione. Sotto questo profilo, Horak si è soffermata sulla titolarità del potere, «un nodo che il diritto dovrà risolvere». Nello specifico, ha spiegato che l’attuale disciplina degli istituti sinodali e degli organismi di partecipazione rivela una visione minimalista della consultazione. Ha ricordato, per esempio, come nel diritto della Chiesa latina si è radicato un binarismo rigido che contrappone i Sinodi — sempre e «solo» consultivi — ai Concili, che hanno invece potere deliberativo. «C’è una resistenza alla partecipazione del Popolo di Dio, che va persino oltre i limiti della legge» ha affermato. «Se il codice fosse almeno eseguito in tutte le sue possibilità, avremmo una Chiesa molto più vitale e partecipata; ad esempio, i concili particolari (plenari e provinciali), che hanno potere deliberativo, sono rimasti pressoché inutilizzati». L’auspicio è «riscoprire alcune dinamiche di voto deliberativo condiviso, distribuito a soggetti diversi, a organismi pluriministeriali, in ragione della competenza in materia o della situazione ecclesiale in cui si deve prendere una decisione». Il principio gerarchico va quindi ricompreso nella dinamica di relazioni ecclesiali complesse e asimmetriche, e il potere deliberativo ha senso se è frutto di un discernimento comunitario perché «la Chiesa non può essere una monarchia». La teologa ha inoltre esortato la canonistica, «troppo adagiata sulla esegesi dei codici», ad avere «una visione più coraggiosa e più cattolica (universale)» per favorire un «salutare decentramento», fatta salva sempre la comunione che è il diritto-dovere fondamentale di ogni persona battezzata nel Popolo di Dio.
Infine, la testimonianza di monsignor Lúcio Andrice Muandula, presidente dei vescovi del Mozambico, che ha esortato la Chiesa a non percepirsi «padrona della missione ma serva missionaria. Non si tratta di compiere solo un servizio di manutenzione della comunità cristiana — ha chiosato — ma dialogare con il mondo».
Nello scambio di domande con l’assemblea è emersa la necessità di sgomberare il campo dal sospetto che parlare di Popolo di Dio, non evidenziando che si parla di «corpo della Chiesa», significhi scadere in una categoria sociologica che trascura il dato divino. Da segnalare la riflessione di un teologo e missionario che ha posto la domanda: dov'è questo popolo missionario se poi in Chiesa ci sono poche persone? Bisogna contagiare la gioia, questo è fare sinodo. Riaccendere questo tratto forse un po’ indebolito attraverso una «formazione cristiana più solida e continua».
di Antonella Palermo