A un anno dallo scoppio della guerra in Medio Oriente

Invocazione di pace
per tutta l’umanità

 Invocazione di pace per tutta l’umanità  QUO-226
05 ottobre 2024

In vista della giornata di preghiera e penitenza indetta da Papa Francesco, il patriarca Pizzaballa ripercorre in un’intervista l’anno di guerra, di sofferenza  e di paura cominciato con i tragici fatti del 7 ottobre 2023


Non che la vita a Gerusalemme concedesse pause anche prima del 7 ottobre ma sicuramente le giornate del patriarca di Gerusalemme dei Latini da un anno a questa parte si susseguono intense e frenetiche, tra cura pastorale, relazioni istituzionali e inevitabilmente anche i rapporti con la stampa e i media internazionali. «Sicuramente la parte che più mi disturba; mi fate perdere un sacco di tempo», esordisce scherzoso il cardinale Pierbattista Pizzaballa.

Eminenza, è già passato un anno da quella terribile mattina.

Sì, un anno altrettanto terribile. E noi lo ricorderemo, insieme a Papa Francesco e a tutte le Chiese del mondo, con una giornata di preghiera e penitenza. Per tenere il nostro cuore libero da ogni forma di paura e di desiderio di rabbia. E portare a Dio con la preghiera il nostro desiderio di pace per tutta l’umanità.

Un mese dopo il massacro del 7 ottobre ci concesse una lunga intervista. Colpì molto i nostri lettori perché era una sorta di riemersione dal silenzio attonito in cui quella tragedia ci aveva precipitato, e nella quale ci raccontava anche i suoi sentimenti personali. «Cambierà tutto», ci disse. Cosa è effettivamente cambiato? E cos’è cambiato per lei e per i cristiani di Terra Santa?

Prima del 7 ottobre 2023 sicuramente le prospettive politiche erano completamente diverse. Il conflitto israelo-palestinese, seppur latente, sembrava essere entrato in una routine non particolarmente allarmante, tanto da non costituire una priorità per le agende della diplomazia internazionale. Il dialogo interreligioso seguiva il suo percorso ordinario, fortificato dai viaggi di Papa Francesco e dall’enciclica Fratelli tutti. La comunità cristiana viveva con impegno le sue attività pastorali. Ecco, tutto questo sembra ora lettera morta. Oggi la questione palestinese è riemersa ma in termini drammatici, da renderla ancor più difficile da risolvere. Il dialogo interreligioso attraversa una crisi profonda. E le iniziative pastorali della comunità cristiana vanno completamente ripensate in un contesto nuovo, carico di tanta sfiducia, di incomprensioni. Un odio diffuso che non avevamo mai visto prima, sia nel linguaggio sia nella violenza fisica, militare. Tutto questo non può lasciarci indifferenti. Quindi, per rispondere alla sua domanda: sì, è cambiato tanto, tantissimo. Bisognerà tornare a parlare di futuro ma tenendo presente che le ferite che questo conflitto sta lasciando sono numerose e laceranti. Anche per me è stato un anno difficilissimo. Da un lato, anche se schiacciato nel marasma quotidiano, occorre preservare e mettere a fuoco la propria vita spirituale. E poi saper aiutare la propria comunità a inquadrare le ragioni dello stare qui, il proprio ruolo. Sono domande sempre molto aperte perché non hanno risposte certificate che valgono sempre nel tempo.

In quel colloquio del novembre scorso, ricordo che pensavamo che di lì a qualche settimana si sarebbe raggiunta una qualche tregua. Sbagliavamo: ci trovammo a commentare insieme il sesto mese di guerra in un clima ancora più disperante. C’è un tragico paradosso in questo conflitto: più dura e più se ne allontana la conclusione.

Non so se si allontana la conclusione, sicuramente il conflitto ha preso pieghe diverse. Non è più concentrato su Gaza, sta diventando un conflitto regionale, che tutti dicono di voler evitare ma che nessuno sembra in grado di fermare. Faccio fatica a credere che possa esserci un’espansione ulteriore del conflitto, una vera guerra regionale del Medio Oriente. Anche se il rischio c’è. Piuttosto vedo un altro pericolo, che è quello di una mancanza totale di exit strategy. Tutte le guerre devono avere una conclusione politica, non militare.

Non c’è alcuna visione politica da nessuna parte.

Assolutamente. Si parla solo di strategie militari, non di politica. Nella convinzione che la pace può darsi solo con la vittoria sull’avversario. Cosa sarà Gaza dopo? Come sarà il Libano? Qualcuno ne parla? Ecco, io credo che queste siano le domande da farsi. Domande che dovrebbe porsi anche la comunità internazionale, per aiutare a trovare delle soluzioni. Altrimenti rimane solo una generica moral suasion alla pacificazione, per lo più inascoltata.

Lei vive qui da quasi trentacinque anni.

Sì, sono arrivato qui il 7 ottobre (sic!) del 1990.

E in tutti questi anni ne ha viste tante. Eppure ha definito questa guerra «la più lunga, la più crudele». In questa guerra abbiamo assistito da entrambe le parti a scene raccapriccianti; sembrano essersi smarrite anche le briciole del sentimento umano. Lei conosce bene entrambe le società: cosa è successo? Perché questo carico inaudito di violenza?

La mia impressione è che si sia rotto qualcosa nell’animo delle due società. Forse prima era incrinato, ora si è proprio rotto. Le due società sono traumatizzate. La società israeliana ha vissuto il 7 ottobre come una piccola Shoah. E per la società palestinese la guerra a Gaza è una nuova Nakba. Dunque, in entrambi i campi, è la riapertura di ferite profonde nella coscienza dei due popoli. Ferite laceranti che avevano segnato per sempre la vita dei due popoli e che ora riappaiono come fantasmi minacciosi. Questo ha scatenato paura. E la paura può generare violenze incredibili, perché è una paura della messa a rischio della stessa propria esistenza. Da ciò è nata la violenza, la disumanità a cui abbiamo assistito in quest’anno: il rifiuto di riconoscere l’esistenza dell’altro per preservare la propria. Lo si vede già dal linguaggio che viene usato, carico di violenza, disumanità, sfiducia. È sempre molto importante guardare al linguaggio.

Dalla parte israeliana, tuttavia, fino al 7 ottobre questa paura non si evidenziava, anzi — complice anche una stagione economica favorevole — la società sembrava aver rimosso il conflitto. Non a caso la narrazione israeliana ha come punto fisso di partenza il 7 ottobre, mentre per i palestinesi ci sono anche un 6, un 5, un 4, eccetera. Voglio dire che in Cisgiordania il 2022 e il 2023 erano stati molto duri.

Vero, la società israeliana si era persuasa che il conflitto con i palestinesi fosse stato assorbito, assimilato. Ma qui torniamo al ruolo della politica, o meglio all’assenza della politica. La politica non è stata capace di leggere la realtà e proporre soluzioni adeguate a una situazione che covava sotto la cenere. Che invece è poi esplosa nella maniera più violenta, più radicale, più odiosa possibile. E a cui si è trovata impreparata.

Impreparata, ma anche divisa. Le divisioni della società israeliana suscitate dalla riforma della giustizia voluta da Netanyahu non hanno avuto tregua durante la guerra, anzi le proteste si sono unite e amplificate insieme a quelle per la gestione della vicenda degli ostaggi. Tornano a mente le parole dell’ex presidente israeliano Reuven Rivlin che paventava il ritorno delle tribù dell’Israele biblico. Israele corre il rischio di vincere militarmente e perdere politicamente?

Che in Israele — come in tante altre società — esistano le tribù si è sempre saputo. Semmai è cambiato il tipo di tribù. Prima erano ashkenaziti, sefarditi, russi, eccetera, ora sono laici, religiosi ortodossi, religiosi nazionalisti, e così via. Ma io non penso che la società israeliana sia divisa sulle questioni essenziali, in primis sulla minaccia alla propria esistenza. Sull’opzione militare non c’è una sostanziale divisione. Forse c’è sulle prospettive future, sull’idea di Stato, ma sulle questioni essenziali no. Cosa sarà Israele tra qualche anno è presto per dirlo. Di certo questa guerra ha segnato un solco profondo nella vita politica del paese. Penso che, finita la guerra, ci saranno profondi cambiamenti. Ma quali e in quale direzione è oggi difficile prevederlo.

Guardando invece ai palestinesi, le vicende di quest’ultimo anno sembrerebbero confermare quella che appare come la condanna storica della società palestinese, cioè di non saper esprimere una leadership autorevole e capace di perseguire un progetto di pace e coesistenza con Israele.

I palestinesi pagano il prezzo di molte cose. Sono il capro espiatorio di molte storie, di una macro politica medio-orientale che li ha sempre usati e mai amati. Compresi i paesi arabi. E i paesi occidentali, che li hanno sempre sostenuti a parole ma mai fino in fondo. E poi certamente pagano lo scotto di una leadership politicamente debole, divisa, e spesso non all’altezza. Alla fin fine sono sempre rimasti soli. Un popolo che ha vissuto tante violenze. Da fuori e dal di dentro.

L’anno scorso in una lunga intervista che il presidente palestinese Mahmud Abbas rilasciò al nostro giornale emerse un dato su cui non si è mai riflettuto abbastanza malgrado la sua semplice evidenza, cioè le ragioni non solo politiche ma soprattutto antropologico-culturali del conflitto: la distanza incolmabile di usi e valori tra gli arabi e gli ebrei prevalentemente provenienti dall’Europa. La piccola comunità cristiana che lei guida ha il vantaggio di non avere un riferimento etnico esclusivo; ci sono cristiani di lingua araba ma anche di lingua ebraica. Può questo costituire un laboratorio di dialogo possibile?

I conflitti non sono quasi mai solo politici e militari. Alla radice ci sono sempre anche ragioni culturali, storiche, identitarie. Che questo conflitto abbia una dimensione antropologica è fuori di dubbio. Ci sono due diverse visioni del mondo, della società, dell’uomo. Totalmente diverse. Basta fare una visita a Ramallah e a Tel Aviv per avere un’immagine di tale diversità. Su alcune cose potranno anche incontrarsi. Ha ragione nel dire che questo aspetto pur così importante non è stato mai sufficientemente evidenziato. Le prospettive qui non potranno mai essere di integrazione ma, al meglio, di convivenza civile e rispettosa. Un vivere in condominio dove ognuno però rimane se stesso, con la propria cultura, i propri costumi, la propria identità. È difficile, lo so, ma è possibile. La nostra piccola comunità interetnica, la Chiesa cattolica, resta un piccolo segno. Certo, non faremo mai scuola, ma questa nostra fatica — perché anche al nostro interno è faticoso conservare questa unità — deve restare il segno di un modo diverso di vivere e relazionarsi. E dovrebbe anche essere uno dei modi con i quali la Chiesa fa la differenza in questa terra sempre così divisa su tutto.

Eminenza, lei vanta nel corso di quest’anno un primato, per quanto triste. È stato il primo, e tuttora unico, leader religioso entrato a Gaza. Ci vuole raccontare qualcosa di quell’esperienza, soprattutto sul piano delle relazioni umane?

Sì, sono riuscito a entrare a Gaza. E spero di poterci tornare. Il dovere di un pastore è esserci. Essere presente accanto al suo gregge. Volevo non solo essergli vicino ma anche capire in che modo aiutarli, essergli utile. Quando sono entrato a Gaza — e non è stato affatto semplice — ho trovato una situazione terribile, una città distrutta, dove l’assenza dei palazzi demoliti rende impossibile anche individuare le strade e quindi orientarsi. Una desolazione totale. Dall’altro lato invece ho trovato una comunità viva e commovente. Erano sorpresi del mio arrivo, e con me del loro parroco, padre Gabriel, che era rimasto fuori da Gaza la mattina del 7 ottobre. Sono restato quattro giorni. Giorni di fatica e di speranza. Ciò che mi ha maggiormente colpito della comunità è che non ho percepito una sola parola di rancore, di odio, di rabbia. Niente. E questo mi ha sorpreso molto, perché umanamente, avevano tutte le ragioni del mondo per essere arrabbiati e frustrati. Ho apprezzato tanto la presenza e il lavoro incredibile svolto dalle suore. Mi hanno colpito molto le parole di un giovane ragazzo che in quei giorni di permanenza ho cresimato. L’attacco del 7 ottobre era stato chiamato da Hamas “Operazione diluvio di Al Aqsa”, e lui mi ha detto: «Se quello è il diluvio, noi, la comunità cristiana di Gaza, siamo l’Arca, l’ Arca di Noè». L’arca sospesa sui flutti di un mare di violenza che ha la prua diretta verso l’arcobaleno della pace.

La posizione della Chiesa è di una semplicità disarmante: si sta con chi soffre. Di qualunque parte sia. Eppure stenta a essere compresa. Lei, da questo punto di vista, è stato bersaglio frequente durante quest’anno, “tirato per la giacchetta” da una parte e dall’altra. Vuole cogliere l’occasione per mettere un punto fermo su tali critiche?

Quando si ha un ruolo pubblico in un contesto così polarizzato è inevitabile essere bersaglio. L’importante è che, quando si parla, si cerchi di esprimere non quello che gli altri si attendono di sentir dire ma ciò che in coscienza si ritiene sia giusto e vero. Bisogna mettere in conto anche gli errori, che pure vengono fatti, perché sono immancabili in un contesto così critico: a esempio, una comunicazione a volte eccessiva, oppure mancante o incompleta. L’importante è essere onesti: la Chiesa deve stare con chi soffre. Sempre. La Chiesa non può essere neutrale. Non posso andare a dire ai miei parrocchiani di Gaza, che sono sotto le bombe, «noi siamo neutrali». Però, se è vero che la Chiesa non può essere neutrale, è anche vero che noi non possiamo essere parte dello scontro. Che sarebbe non solo sbagliato ma anche sciocco in un contesto dove in settantasei anni di guerra le colpe degli uni e degli altri non si compensano ma si sommano. In un ambiente così polarizzato non è semplice essere al contempo veri, avere il coraggio di una parola di verità, e anche saper esprimere vicinanza a chi soffre. Mantenere il dialogo aperto sempre con tutti, con chi soffre, ovviamente, ma anche con chi è causa della sofferenza. Essere e restare, come persona e come istituzione, un riferimento libero in tutti i sensi, in questo ginepraio doloroso, fatto di violenza, odio, narrative escludenti e rifiuto. Io non sono chiamato a esprimere le posizioni dei palestinesi, e tantomeno quelle degli israeliani. Io devo parlare a nome della Chiesa. E la voce della Chiesa ha come criterio unico il Vangelo di Gesù Cristo. Da lì si deve partire e lì si deve sempre arrivare.

Mi consenta una domanda più personale. Ho un ricordo della nostra conversazione di undici mesi fa. Lei insistette molto sul termine “solitudine”. Si riferiva soprattutto alla solitudine della verità in un contesto di odio, ma era abbastanza chiaro che lei stesso soffrisse il peso grave della solitudine nel suo ruolo di capo dei cattolici di Terra Santa. Come ha vissuto questi undici mesi?

Diciamo che la solitudine è richiesta dal ruolo. Il mio la richiede perché la solitudine ti consente di essere libero. E non sei autenticamente libero se non hai una certa distanza anche emotiva. Poi, io sono un essere umano, e che questo mi pesi è ovvio.

Immagino pesante soprattutto per uno che, come frate, aveva sempre vissuto in comunità.

Certo. Ma la solitudine deve essere abitata. Abitata dalla preghiera, dal rapporto con il Signore, dalla coscienza di fare quello che è giusto fare, dal discernimento continuo, e anche dal rapporto umano con le persone giuste.

Prima di assumere il ruolo di pastore dei cristiani in Terra Santa, lei ha svolto un prezioso ruolo di cerniera tra cristiani ed ebrei, ed è stato guida dei cristiani di lingua ebraica. Sono cambiati in qualche modo i suoi rapporti con il mondo ebraico israeliano dopo il 7 ottobre 2023?

Ci sono state diverse fasi. All’inizio è stato difficile. Per loro soprattutto. Avevano un gran bisogno di grande vicinanza, solidarietà, affetto, amore. Che forse essi non hanno sentito del tutto. Ma anche noi sentivamo il bisogno di una loro comprensione su quanto stava accadendo nelle settimane, e mesi, dopo il 7 ottobre. Poi col tempo, le amicizie, quelle vere, sono rimaste. Di certo siamo in una fase nuova del dialogo interreligioso. Non è più il tempo delle sole buone intenzioni e dei convenevoli gentili; occorre piuttosto ancorare il nostro dialogare alla realtà, che pure si presenta in tutta la sua drammaticità. Abbiamo discusso e dialogato molto sul nostro comune e difficile passato, e questo era necessario. Ma ora, senza dimenticare il passato, dobbiamo concentrarci sul presente, a partire dalle difficoltà che incontriamo oggi. A cominciare dal cercare di comprendere perché, in questo momento così decisivo nelle nostre relazioni, abbiamo faticato a intenderci, ad avere una lingua comune. E poi soprattutto sul come unire i nostri sforzi in una direzione di pace. Non può essere più un discettare accademico o teorico, ma immerso nella viva realtà che ci circonda.

Lei è anche il pastore dei cristiani in Giordania. Ed è stato più volte negli ultimi mesi in quel paese. Come è stato vissuto lì il 7 ottobre?

Molto male, direi. La Giordania ha visto nei primi mesi continue manifestazioni, anche dure, di solidarietà con i palestinesi di Gaza e contro Israele. Non scordiamoci che circa il 60 per cento della popolazione del Regno di Giordania è palestinese, e anche gran parte della comunità cristiana giordana è di origine palestinese.

Tutta l’attenzione mediatica è ora centrata sul fronte nord con il Libano e sui pericoli di guerra tra Israele e Iran. Molta meno attenzione è dedicata alla situazione in Cisgiordania, che invece in termini politici è il vero punto cruciale del problema. Lei è stato di recente a Jenin, epicentro di violenti scontri tra esercito israeliano e miliziani palestinesi.

Politicamente la partita è complessa e si gioca su vari fronti. La Cisgiordania è senz’altro uno dei più complessi. Dal 7 ottobre la situazione lì è degenerata tanto in termini economici che politici e militari. Le continue incursioni dei coloni israeliani stanno determinando una situazione da “terra di nessuno”, senza regole, senza diritto, dove l’ha vinta chi spara per primo e più forte.

Restringendo ancor di più il cerchio da tutti i fronti si guarda a Gerusalemme. Senza pace a Gerusalemme non ci sarà mai pace in tutto il Medio Oriente. Anni fa lei mi disse che «la guerra a Gerusalemme è una guerra immobiliare, si combatte per strappare un metro quadro»; ma intanto l’infiltrazione ebraica nella città vecchia e nella parte est procede senza interruzioni.

È così. Gerusalemme è la cartina tornasole del conflitto non solo in Terra Santa ma in Medio Oriente in generale. Gerusalemme è il cuore di tutto, nel bene e nel male.

La Knesset ha anche formalmente archiviato la soluzione dei “due Stati” e Netanyahu ha definito gli accordi di Oslo un errore nella storia di Israele. C’è una sola espressione che Netanyahu e Sinwar condividono: entrambi reclamano la propria giurisdizione esclusiva “dal fiume al mare”, senza alcuno spazio per l’altro. I “due popoli in due Stati” ha ancora una sua praticabilità oggi?

Ci sono problemi che hanno soluzioni e problemi che non hanno soluzioni. Realisticamente, in questo momento una soluzione al conflitto israelo-palestinese, che sia i “due popoli in due Stati” o “due nazioni in uno Stato” o quanto altro si immagini, semplicemente non c’è. Abbiamo bisogno di nuovi volti e di nuove prospettive. E ciò è un problema che non riguarda solo questa terra ma tutto il Medio Oriente, a cominciare, dopo le vicende delle ultime ore, dal Libano. Abbiamo bisogno di ripensare in maniera ampia tutto il contesto, e Gerusalemme che, ripeto, è il cuore della questione. Tutto il Medio Oriente ha bisogno di nuove leadership e nuove visioni. Solo dopo si potrà discutere degli assetti più congeniali a garantire la pace tra i popoli.

Lei, nel corso di quest’anno, ha dovuto anche viaggiare molto in Europa e in America. Quale percezione ha registrato delle comunità cristiane intorno al conflitto in corso?

Unità nel sostenere i cristiani di Terra Santa, ma per il resto molta confusione se non anche divisione. Si fa fatica a comprendere le ragioni del conflitto. D’altronde anche negli altri paesi la politica induce alla polarizzazione. Solo la voce di Papa Francesco si alza a lamentare la crisi di umanità che pervade questi nostri tristi tempi. E lo dico senza alcun orgoglio partigiano, ma con tanta pena nel cuore.

di Roberto Cetera