L’Africa è un continente circondato dal mare e la presenza dei grandi fiumi come il Nilo, lo Zambesi e il Congo, per non parlare dei Grandi Laghi, fanno pensare che le popolazioni autoctone da sempre abbiano avuto un rapporto privilegiato con la navigazione. Autoctone, appunto, perché questa non è stata per gli africani un’esperienza “di importazione” dovuta solo a popoli giunti nel continente da altri luoghi, come i Fenici che ne colonizzarono gran parte della sponda settentrionale mediterranea.
L’imbarcazione più antica finora rinvenuta in Africa è quella detta di Dufuna, una località tra Potiskum e Gashua, nello stato nigeriano di Yobe. La scoperta di questo importantissimo reperto archeologico è avvenuta per caso. Un pastore dell’etnia Fulani che, in un giorno di maggio del 1987, vagava per le terre aride della Nigeria settentrionale in cerca di pascoli, si inoltrò in una valle alla ricerca di acqua. Si chiamava Malam Yau e avanzava stancamente lungo i pendii polverosi con il suo bestiame e improvvisamente si fermò nei pressi di una piccola depressione nel terreno. Gli animali, sua unica fonte di sostentamento, erano stanchi e disidratati e quella particolare conformazione del terreno lo indusse a scavare un pozzo. Quando raggiunse quasi i cinque metri, si accorse che la sua vanga aveva colpito un oggetto duro e compatto. Si rese subito conto che si trattava di qualcosa d’insolito e che comunque non aveva nulla a che fare con il materiale roccioso che a volte s’intercetta nel sottosuolo. Ritenne pertanto opportuno informare il capo villaggio e da quel momento la notizia di quell’insolita scoperta si diffuse in tutta la regione.
Fu però solo nel 1989 che un team dell’università di Maiduguri fu in grado di effettuare una ricognizione del sito, confermare che si trattava di una canoa e prelevare campioni di legno per la datazione al radiocarbonio. L’indagine si protrasse fino al 1990. La raccolta dei dati venne successivamente condivisa con l’università di Francoforte in Germania. Successivamente, una squadra di archeologi tedeschi e nigeriani, sotto la guida dei professori Peter Breunig e Abubakar Garba, grazie a un finanziamento erogato da tale università, prelevò altri campioni di legno per ottenere una datazione ancora più accurata in due distinti laboratori tedeschi.
Nel 1994 arrivò il momento della verità: l’imbarcazione venne dissotterrata in due settimane da una squadra di cinquanta operai e si scoprì che era lunga 8,4 metri, larga 50 centimetri e spessa 5. Lo scafo era appoggiato su un letto sabbioso con strati di argilla che la proteggevano in un ambiente privo di ossigeno. Sia la prua che la poppa erano state finemente lavorate con strumenti bifacciali tipici dei maestri d’ascia. Chi avrebbe potuto produrre un simile "manufatto"? Queste e altre domande correlate sono fondamentali per la comprensione della storia e della società che viveva in quell'ambiente nella preistoria.
Il professor Breunig ritiene che la tecnica di costruzione dello scafo dimostri chiaramente che si tratta di un’opera realizzata da una civiltà avanzata risalente a 8mila anni fa (6.000 avanti Cristo). La canoa appartiene dunque al periodo dell’età della pietra (Neolitico). A questo proposito il professor Garba ha sottolineato che «Poiché abbiamo a che fare con un singolo “artefatto” prodotto da popolazioni preistoriche, ormai scomparse ed estinte, non saremmo in grado di ricostruire i processi di fabbricazione da nessuna fonte se non dall'indagine etno-archeologica ed etnografica e dallo studio delle popolazioni che oggi si confrontano e interagiscono con un ambiente simile a quello preistorico in modo da risalire alle tecniche di produzione del passato».
A seguito di uno studio condotto da un team scientifico americano nel 2015, si ritiene che con ogni probabilità l’area del villaggio di Dufuna avrebbe fatto parte della pianura alluvionale del lago Ciad quando le sue dimensioni erano di gran lunga superiori a quelle attuali. «La scoperta di questa imbarcazione è un importante punto di riferimento nella storia della Nigeria in particolare e dell’Africa in generale», dichiarò ai giornalisti il professor Omotoso Eluyemi, allora direttore della Commissione nazionale nigeriana per i musei e i monumenti. «Oltre a dimostrare che la società nigeriana era alla pari (se non precedente) a quelle di Egitto, Mesopotamia e Fenicia, la scoperta – spiegò Eluyemi - fornisce anche una prima prova concreta che gli africani hanno elaborato un processo tecnologico per modificare il loro ambiente e soddisfare le loro esigenze. Ma è ancora più importante sottolineare che la canoa di Dufuna ha ampiamente dimostrato che quelle popolazioni 8mila anni fa padroneggiavano con disinvoltura i tre principali elementi della cultura neolitica che includevano la creazione, la standardizzazione e l’utilizzo di utensili secondo tradizioni stabilite». Sempre secondo Eluyemi, il ritrovamento di questa canoa «Fornisce prove concrete del trasporto via mare e di qualsivoglia forma di attività commerciale a lunga distanza indicativa di strutture politiche ed economiche già esistenti».
La realizzazione della canoa Dufuna deve certamente essere stata un’impresa ardua considerando l’epoca in cui è stata realizzata, ma che soprattutto ha richiesto maestria, specializzazione e ingegno. Nel Neolitico, peraltro, non esistevano utensili in ferro, dunque la lavorazione dell’imbarcazione potrebbe aver richiesto lunghi mesi di lavoro. È inoltre molto probabile che la canoa debba essere stata realizzata nei pressi di un bacino d’acqua per eliminare la difficoltà di trasportarla su lunghe distanze.
Rimane il fatto che nei secoli successivi l’Africa ha continuato a essere una terra di navigatori. Le prime testimonianze con riproduzioni grafiche (disegni e geroglifici) relative all’uso di imbarcazioni provengono dall’Antico Egitto. Noti per la loro tecnologia avanzata e per le informazioni, gli egiziani usavano le barche per viaggiare verso altre regioni lungo il Mar Rosso, il Nilo e il loro più grande alleato, la Terra di Punt. Quest’ultimo era un regno che esportava oro, resine aromatiche, legno nero, ebano, avorio e animali selvatici. La localizzazione esatta di Punt è dibattuta dagli storici. Studi recenti ritengono che si trattasse di una lingua di terra nell’Eritrea nordoccidentale.
Le barche dell’antico Egitto si classificano in due categorie: quelle fatte di giunco (Skiff) e quelle di assi di legno. Le prime venivano prevalentemente utilizzate per la pesca e la caccia nelle paludi, o per brevi distanze. Le sacche d’aria nelle canne le rendevano particolarmente galleggianti. Le seconde erano generalmente più grandi, navigavano a remi e a vela, e venivano utilizzate per percorrere distanze lunghe, anche in mare aperto, per trasportare di tutto: dai cereali al bestiame, dai materiali da costruzione, alle persone. Le navi di legno avevano anche scopi cerimoniali e spesso venivano raffigurate nelle tombe.
Com’è noto anche i cartaginesi furono dei grandi navigatori e il loro potere militare sui mari garantì per lunghi anni un monopolio incontrastato sul commercio, finché non vennero sconfitti da Roma nel 146 avanti Cristo.
Ma non è tutto qui. Gli africani hanno comunque continuato a navigare. Secondo lo storico arabo al-Umari, nel 1324 Mansa Musa, sovrano dell’Impero del Mali, mentre soggiornava al Cairo durante il suo hajj, il pellegrinaggio verso la Mecca, riferì a un funzionario egiziano con cui era diventato amico che si era trovato a governare in quanto il suo predecessore si era avventurato con una grande flotta nel tentativo di attraversare l’Oceano Atlantico, senza però mai fare ritorno.
Su questa vicenda vi è dissenso tra gli storici. Alcuni sostengono che una spedizione del genere non avrebbe mai potuto aver luogo e che non ci sono sufficienti documenti storici per giustificare un simile viaggio. Altri, come Ivan van Sertima e il ricercatore maliano Gaoussou Diawara ritengono invece che vi siano ragioni fondate per credere che raggiunsero il continente occidentale che oggi chiamiamo America. In particolare, Van Sertima cita l’estratto del diario di bordo di Cristoforo Colombo redatto da Bartolomé de las Casas, secondo cui gli abitanti nativi dell’isola caraibica di Hispaniola affermavano che «da sud e da sud-est erano arrivati dei neri le cui lance erano fatte di un metallo chiamato guanín ... da cui si è scoperto che constava di 32 parti: 18 erano d’oro, 6 d’argento e 8 di rame».
Al di là del pur lecito dibattito storico, ci sono comunque prove che confermano l’esistenza di imbarcazioni africane di lungo corso capaci di trasformare le vie d’acqua, un tempo percepite come barriere, in vie di commercio e comunicazione.
di Giulio Albanese