(s)Punti di vista

Il calcio è ancora popolare?

Marseille's Argentinian head coach Marcelo Bielsa gestures during the French L1 football match ...
01 agosto 2024

«Il calcio è uno sport popolare, ma lo stanno rubando ai poveri». Senza peli sulla lingua, come è nel suo stile. Marcelo “El loco” Bielsa, l’allenatore argentino della nazionale dell’Uruguay, nella conferenza stampa dopo la gara vinta contro il Brasile in “Copa America” ha detto un’altra cosa fuori dagli schemi, che tutti pensano ma nessuno dice, a parte lui. E cioè che i troppi soldi stanno corrompendo questo che rimane lo sport più amato al mondo: i giovani che crescono nel sogno di giocare in prima serie, finiscono ben presto nelle grinfie dei procuratori e dei dirigenti, e se ne vanno dal mondo povero da dove provengono per entrare in un mondo astratto, evanescente, una bolla di notorietà che brucia tutto, presto. Il peso delle televisioni si è fatto sempre più pesante e la spettacolarizzazione alla fine ha danneggiato paradossalmente la stessa qualità tecnica del gioco. Per troppi colpi ad effetto e virtuosismi il calcio è diventato meno virtuoso e, alla fine, noioso. Insomma, il re è nudo. Lo ha detto Bielsa, con l’improntitudine di chi può permetterselo, lui è “El loco”. E spesso i pazzi dicono la verità.

Così la pensa Bruno Giordano, giocatore di un’altra epoca e di un altro calcio, quello di cui parla l’allenatore argentino: «Sono d’accordo con lui sul fatto che il calcio che non è più dei poveri». Giordano è uno dei tanti rappresentati di un calcio del popolo ormai in via di estinzione: «È diventato un calcio fatto di molto mercato e poca passione e in un mercato è normale che i giocatori vadano dove ci sono più soldi» aveva dichiarato in passato l’ex compagno di squadra di Diego Armando Maradona, colui che forse più di tutti ha incarnato il calcio popolare, come attesta il famoso video in cui il “Pibe de oro” giocava nel fango di Acerra all’apice della sua carriera. In quell’occasione portò, nonostante la perplessità e la contrarietà del presidente Corrado Ferlaino, la squadra del Napoli, a giocare su un campo di dilettanti per raccogliere fondi da destinare alle cure per un bambino malato.

Ma la strada intrapresa oggi dal calcio è un’altra, quella del business. Eppure il calcio è ben altro, così almeno è stato nella sua storia. È uno sport che sin da subito ha mostrato la caratteristica di unire le persone in tutto il mondo. Ha fermato la prima guerra mondiale: la tregua di Natale avvenuta nel dicembre del 1914 ha visto tedeschi, inglesi e francesi unirsi in canti religiosi ed affrontarsi a calcio nella cosiddetta “terra di nessuno”.

Socialità, rispetto. E accessibilità. Un’accessibilità che oggi appare sempre più ridotta. Se da una parte si lamenta la difficoltà di sfornare giovani talenti, dall’altra emerge il dato relativo ai costi delle scuole calcio, che stanno diventando sempre di più “roba da ricchi”. C’è un rischio di una stratificazione sociale intorno ad uno sport che appassiona e tende o dovrebbe tendere a unire tanti, tutti. Il bello del calcio è proprio la sua apertura a tutti, un’occasione di felicità per tutti, giocatori e spettatori. Questo lo rendeva non tanto uno sport, dice Bielsa, ma una vera forma di culturale popolare. Che il calcio sia popolare e occasione di felicità per i poveri Bielsa non solo lo predica, ma lo pratica. Un ultimo, scandaloso, gesto è in questo senso molto eloquente: ha convocato di recente e fatto esordire nella nazionale dell’Uruguay il giovane Walter Dominguez, di 25 anni, che milita non tra i professionisti ma tra i dilettanti. Un fatto senza precedenti.

Oggi, punti sul vivo dalle parole e dai gesti del “loco”, viene da chiedersi se il calcio veramente popolare, che ha un peso sociale, esista ancora. Alcune realtà, meno visibili, per fortuna spingono ancora questo sport in quella direzione. Un chiaro esempio può essere la realtà di “Calciosociale”, una società sportiva dilettantistica che da oltre quindici anni opera in contesti giovanili ad alto rischio di devianza proponendo un’attività educativa e pedagogica. Quattro anni dopo la nascita, avvenuta nel 2004, prende vita a Corviale, un quartiere di Roma, il Campo dei Miracoli “ Valentina Venanzi”. La realtà si diffonde in breve tempo, tanto da esser chiamata a testimoniare la propria attività anche al Parlamento europeo nel 2013. «Noi cerchiamo di riportare il calcio alla visione originale: inclusione sociale ed educazione. Si sta perdendo molto del romanticismo del calcio, si stanno perdendo i valori. Noi vogliamo che le scuole calcio diventino palestre di vita» ha ammesso al nostro giornale Massimo Vallati, responsabile di “Calciosociale”. «Ritengo che stiano rubando il calcio al calcio» ha affermato in merito alle dichiarazioni di Bielsa. «Oramai è diventato qualcosa che appassiona sempre di meno. Non c’è più la curiosità di una volta».

Anche perché il fine ultimo del gioco, e questa è un’altra stoccata del “loco”, è diventata la vittoria, a ogni costo e con ogni mezzo, rifiutando quella fecondità, quel dono agrodolce contenuto in ogni sconfitta. L’inseguimento di una «sensazione di gioia lunga solo cinque minuti al termine di una gara», dice Bielsa, supera di gran lunga il valore di un insuccesso che è divenuto solo un sinonimo di fallimento. E invece «l’insuccesso ci rende stabili, ci avvicina alle nostre convinzioni, ci fa ritornare a essere coerenti» ha aggiunto Bielsa, uno che di coerenza se ne intende.

di Matteo Frascadore