Hic sunt leones
Nella regione subsahariana elaborata una strategia per far rispettare i diritti alle multinazionali

Sindacati africani
e pace sociale

 Sindacati africani e pace sociale  QUO-157
12 luglio 2024

La percezione pubblica dell’esperienza sindacale nel vasto continente africano è variegata e comunque soggetta a profonde mutazioni nel tempo, segnate da un’accelerazione che talora, in alcuni paesi, pare sorprendere analisti e operatori delle relazioni industriali. Le ragioni sono molteplici e tali da incidere sulle scelte degli attori politici e sociali, che non di rado si trovano a rincorrere l’evoluzione della realtà socio-economica africana nel tentativo di indirizzarne i processi.

All’inizio, il movimento sindacale rappresentò un’importante forza trainante della lotta di liberazione anticoloniale. Questo sebbene la vera e propria fase fondativa dei sindacati africani risalisse alla decisione politica delle amministrazioni coloniali di consentirne l’esistenza ritenendo che potessero essere un mezzo per garantire il mantenimento della pace sociale. Ecco che allora, ad esempio, nelle colonie francesi, nacquero raggruppamenti sindacali di matrice ideologica (comunisti e socialisti) o cristiana, a volte in competizione tra loro e comunque capaci di perseguire distinte mobilitazioni a sfondo rivendicativo per tutelare le masse impoverite. Al contrario, il sindacato nei possedimenti britannici venne caratterizzato da una suddivisione molto pragmatica di stampo corporativistico (artigianale, industriale, oltre ai sindacati generali, interni e alle associazioni del personale).

L’emancipazione del movimento sindacale africano si manifestò palesemente nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, con sfumature diverse, a secondo delle aree geografiche del continente. L’obiettivo dei sindacati africani andò comunque ben al di là della difesa dei diritti dei lavori e si connotò per il suo carattere politico proteso all’ottenimento dell’indipendenza dalle potenze coloniali europee.

Purtroppo, negli anni Sessanta, una volta riconosciuto il diritto all’autodeterminazione dei paesi africani, paradossalmente venne meno l’indipendenza sindacale. In molti casi l’affermazione dei partiti unici, costituiti sul modello dello stato-nazione, ridusse il movimento sindacale ad una sorta di cinghia di trasmissione dei regimi al potere. In cambio della rinuncia alle libertà fondamentali, alle organizzazioni sindacali venne garantito uno status sicuro, incarichi di rilievo per i loro membri e privilegi per i loro leader.

Questa omologazione sistemica instaurata dai regimi presidenziali subì un brusco risveglio a seguito della crisi del debito degli anni Ottanta del secolo scorso e dalla conseguente liberalizzazione economica dei mercati che causò non solo rilevanti perdite sul piano occupazionale nell’economia reale, ma scatenò un significativo calo degli iscritti ai sindacati. A seguito dell’imposizione dei piani di aggiustamento strutturale da parte delle istituzioni internazionali (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) molti governi si trovarono costretti a riformare le loro normative sul lavoro a svantaggio dei lavoratori.

Nel frattempo, la graduale liberalizzazione politica che portò all’affermazione, con declinazioni diverse, del multipartitismo creò lo spazio politico per rompere il rapporto stretto e dipendente con le autorità statuali, innescando la nascita di nuovi sindacati indipendenti. Ecco che allora in diversi paesi vi è stato un ritorno alle radici movimentiste delle origini al punto tale che in alcuni casi le organizzazioni sindacali hanno svolto un ruolo decisivo nella rimozione dei regimi autocratici.

Ma sebbene in non pochi paesi africani, negli ultimi trent’anni, vi siano stati episodi di alternanza nella gestione del potere politico, ancora oggi i sindacati africani vengono osteggiati nella difesa del diritto al lavoro. D’altronde, è opinione diffusa che la globalizzazione modifichi profondamente i rapporti di forza tra datore di lavoro e lavoratori e redistribuisca il potere contrattuale tra i diversi portatori d’interesse (stakeholder). Il lavoratore che era stakeholder forte nell’economia pre-globalizzazione, perché incrociando le braccia era in grado di paralizzare l’attività produttiva dell’azienda, rischia scioperando nell’economia post-globalizzazione di essere penalizzato.

Ma attenzione: nei paesi occidentali questo può implicare la delocalizzazione da parte dell’imprenditore verso paesi/continenti a minor costo del lavoro (e minore grado di conflittualità sindacale). Di converso in Africa si acuiscono le forme di sfruttamento imposte dalle attività speculative dagli investitori stranieri e dalla finanza internazionale, sia con salari minimi di gran lunga inferiori al costo medio della vita, sia con il forzato obbligo a qualsivoglia forma di welfare.

Sta di fatto che, mentre in Europa lo stakeholder forte è oggi il consumatore perché con il suo voto col portafoglio è in grado di influenzare i flussi di consumi e di risparmio, in Africa questo è praticamente impossibile. Per voto col portafoglio, è bene precisarlo, si intende la possibilità del consumatore e risparmiatore di premiare con le proprie scelte le imprese leader nell’efficienza, ovvero quelle all’avanguardia nella capacità di creare valore economico in modo socialmente ed ambientalmente sostenibile, tutelando appunto ambiente e lavoro. Di conseguenza il lavoratore o più in generale il sindacato possono tornare ad essere stakeholder forte solo se riescono ad utilizzare la leva aggiuntiva delle proprie scelte di consumo e di risparmio per difendere il lavoro.

In Africa, invece, soprattutto a seguito dell’attuale congiuntura economico-finanziaria internazionale, i consumatori fanno fatica a sbarcare il lunario, mentre i lavoratori sono sottopagati, soprattutto per il deprezzamento delle valute locali. Infatti, sulla scia delle recenti crisi globali, tra cui le ricadute persistenti della pandemia di covid-19 e il sanguinoso conflitto russo-ucraino, i paesi africani si ritrovano immersi in una crisi fiscale senza precedenti. In uno studio condotto dall’Africa labour research and education institute (Alrei) sulla questione del debito sovrano, che pesa sul destino della gente come una spada di Damocle, emergono dati preoccupanti. Lo studio rivela, ad esempio, che l’elevato livello di debito rispetto alle dimensioni della maggior parte delle economie in Africa è associato a una riduzione degli investimenti pubblici in sanità, istruzione e protezione sociale a livelli statisticamente significativi.

Ciò ha innescato crisi di liquidità (difficoltà nel soddisfare i propri obblighi finanziari a breve termine, quelli del cosiddetto “servizio del debito”, cioè gli interessi) per molti paesi (come Ghana, Kenya, Zambia, Ciad, Nigeria ed Etiopia) e rischi di solvibilità (difficoltà sostenute nel rimborso del debito principale) per altri paesi (tra cui sempre Ghana, Zambia e Ciad), che hanno reso necessaria la ristrutturazione del debito sia volontaria che imposta dal Fmi nel continente. L’Organizzazione regionale africana della Confederazione sindacale internazionale (Ituc-Africa), per far fronte a questo scenario davvero emergenziale, è scesa in campo lanciando un segnale importante che dovrebbe essere interpretato come un monito alla militanza per l’intero movimento sindacale africano. I governi africani hanno il dovere, secondo Ituc-Africa, di ampliare la base imponibile, assicurando una distribuzione più equa degli oneri fiscali e combattendo la corruzione nella riscossione delle entrate. Invocano pratiche di gestione prudente del debito, tra cui termini di prestito trasparenti e una rigorosa valutazione dei progetti. Inoltre, dovrebbero dare priorità alla spesa sociale inclusiva, soprattutto nei settori critici come la sanità e l’istruzione. Perché ciò sia possibile, i decisori politici hanno l’obbligo di esplorare programmi mirati di riduzione del debito per alleviarne l’onere del servizio, in particolare sulle popolazioni vulnerabili. In questa prospettiva i sindacati devono guidare gli sforzi di advocacy su obiettivi concreti che includano l’aumento della consapevolezza pubblica riguardo all’impatto socioeconomico del debito, l’influenza sulle scelte politiche dei governi e la creazione di coalizioni per l’azione condivisa.

La verità è che gli abusi nei confronti dei lavoratori africani hanno un impatto fortemente negativo sulla loro stessa dignità. Pertanto, i sindacati dell’Africa subsahariana (Sub-Saharan african trade unions) hanno elaborato congiuntamente nel novembre scorso a Mombasa in Kenya una strategia su come la “due diligence” (in senso lato la verifica della sostenibilità di una situazione) sui diritti umani possa essere un catalizzatore per raggiungere le loro richieste affinché le aziende multinazionali rispettino i diritti fondamentali dei lavoratori, il lavoro dignitoso, i salari dignitosi e la protezione dell’ambiente e dei diritti della comunità. Il cammino è evidentemente tutto in salita, ma questa sensibilità sindacale è indicativa del fatto che la società civile non è disposta a piegarsi così facilmente come alcuni pensano e che soprattutto l’Africa e le sue ricchezze non sono in svendita. Questo è il vero prezzo della pace sociale.

di Giulio Albanese