Dalla stazione di Venezia Santa Lucia, prendendo il vaporetto 4.1 o il quarantuno, in venti minuti si arriva all’isola della Giudecca. Dal caos alla calma in poche, pochissime miglia, sporcate dal russare del battello.
Poche centinaia di metri dalla postazione di arrivo, ci si ritrova davanti al numero civico 712 in piccolo, sopra una targa ovale un tempo bianca, oggi consumata dal vento e dal sale marino, con la scritta in blu “Istituzioni Penali Femminili”. D’istinto l’occhio prova ad andare oltre la porta a vetri, non vede nulla. Il cuore sa già che non gli servirà l’uso di alcun senso: il silenzio davanti all’antico monastero, dove la libertà di poco più di ottanta donne è in sospeso, è il biglietto da visita per chiunque passi da quelle parti. L’aria è densa, un gabbiano che sorvola i tetti fa un verso, che pare non suo. Tutto lì è diverso dal resto della città, te ne accorgi quando le due sorridenti guardie carcerarie ti chiedono i documenti, poi ti passano il metal detector, e con voce gentile ti chiedono di riporre nell’apposito armadio tutto ciò che hai addosso e dentro lo zaino. Nel padiglione bisogna entrare nudi delle cose frivole della vita, frivole in quei mille metri quadri dove la libertà è una parola che si infrange sui muri, e sulle mura.
All’ingresso del Padiglione della Santa Sede, veniamo accolti da un gavettone. Forse è una manifestazione di non benvenuto, oppure è un modo simbolico per ripulirci dai pregiudizi verso una realtà poco conosciuta. Ad ogni modo, nei volti dei visitatori prevale la totale comprensione del gesto, non alcun lamento, se non un piccolo acuto di una signora per l’inaspettata doccia di benvenuto.
Le due guide, signore gentili e sorridenti che scontano le loro pene lì, per quaranta minuti ci conduco, ci accompagnano e ci spiegano tutto ciò che ritengono sia necessario sapere per noi. Nello spaccio i muri sono un trionfo di quadri della suora, artista pop e attivista per i diritti civili, Corita Kent. Scritte che richiamano la vita, la speranza: rosso, giallo, blu, verde i colori che prevalgono.
La mostra è interessante per contenuto, forma ed emozioni. Di primario impatto umano è la collaborazione dell’istituzione carceraria con i grandi artisti. Sul volto delle guide il sorriso non conosce limite di gioia quando si soffermano sull’opportunità di poter fare, di potersi impegnare, di poter evadere mentalmente dal carcere. Parlano delle proprie famiglie, dei propri figli cambiando immediatamente discorso: non è dato sapere a noi quanti giorni, settimane, mesi o anni li separano ancora.
Spiegano in maniera minuziosa ogni piccolo particolare artistico presente nel padiglione, rispondono alle curiosità. Prima di entrare nel cortile interno, dove ci sono le signore sedute sulle panchine, una delle due guide ci mostra l’unica finestra del complesso priva delle sbarre: dà sul piccolo orto che le stesse carcerate coltivano. «È la nostra finestra preferita, possiamo vedere il mondo per quello che è, non frammentata dal metallo». Una frase per tutto il senso del desiderio della libertà di ricominciare. Un’attesa non vana.
Dal cortile ci ritroviamo in un giardino dall’aria malinconica, diviso in due da una staccionata. Qui il sole batte meno, il gioco delle ombre di un albero spegne i colori di un’altalena e di uno scivolo. Nessuno domanda nulla.
Nonostante i luoghi differenti del carcere, in ogni centimetro si respira un senso di nostalgia e malinconia, come di un tempo presente che è più passato che futuro. Sembra una conclusione logica per gli occhi di chi ha sempre e solo vissuto in libertà, e in cuor suo non ha dovuto mai sperare oltre ogni logica del tempo e della possibilità. La presunzione è il peccato che gli uomini liberi perdonano ad altri uomini liberi.
Dalle giostre si entra in una piccola sala, dove per diciassette minuti guardiamo in silenzio il cortometraggio di Marco Perego e Zoe Saldana: non alcuna parola proferita, è il momento di capire, di imparare la vita degli altri. Degli altri che sono stati noi, degli altri che potremmo, in un batter d’occhio, essere noi senza neppure saperlo. Il padiglione è un equilibrio sottilissimo tra arte, vita vissuta, affetti attesi fuori, speranze e sogni di finestre aperte.
I quaranta minuti scorrono velocemente, troppo. Tutti vorremmo fare almeno un’altra domanda alle due signore che ci hanno guidato. Loro lo sanno, loro conoscono quel momento esatto che sta per arrivare: dirsi addio, dire addio a quei minuti di totale distacco dalla vita dietro le sbarre. Le voci si commuovono, i ringraziamenti sono nell’aria: le due guide, sono loro a ringraziare noi. Loro sanno tante cose, le loro parole misurate, studiate, per non trasmetterci le loro notti insonni o le loro giornate difficili, colpiscono l’anima. Noi siamo grati a loro, e quando usciamo dalla mostra, il silenzio della Giudecca è l’unica forma di rispetto per quelle donne, come un suono sordo in attesa del loro giorno là fuori. Qui fuori.
L’arte è da sempre una fonte di contemplazione collettiva, frutto spesso di una intuizione singolare e soggettiva, ciò che smuove nel prossimo non è dato sapere. L’arte non necessita di spiegazione, è emozione pura. Eppure, nel momento esatto nel quale le due guide hanno ringraziato le due guardie carcerarie per aver loro permesso «tutto questo», in qualche modo l’arte come forma, come partecipazione sembra divenire gratitudine, consapevolezza anche verso chi, formalmente, ricopre il ruolo di custode della non libertà. Arte oltre i confini legislativi, come luce per i giorni oscuri e riflesso verso quelli futuri.
Il contatto tra arte, vita, peccato e redenzione è il colore della Biennale della Giudecca: non lo vedi, ma lo senti come se fosse una lente che ti fa vedere tutto in una maniera che avresti potuto, ma che hai rimandato fino a quel momento. Il contatto diretto sembra portare nuove consapevolezze, certezze ed incertezze, ma soprattutto il rispetto per le vite, e il peso di queste, degli altri.
Ai miei occhi, agli occhi del mondo, esseri umani.
di Nikolai Prestia