Vivere con pienezza
C’è una domanda sottesa in questo Messaggio di Papa Francesco sulle comunicazioni. Ce ne sono anzi due: cosa è la vera intelligenza? Cosa è la vera sapienza? Due domande interconnesse che non sono tanto figlie della rivoluzione che stiamo vivendo — l’intelligenza artificiale peraltro, sebbene così detta, non è propriamente né intelligente né artificiale — quanto piuttosto espressione della nostra radice umana e della nostra fede cristiana. Due interrogativi che ridanno un senso alle parole fondandole sulla Parola, perché non perdano significato; due questioni fondamentali che riguardano i giornalisti e i comunicatori professionali, ma che coinvolgono tutti, nessuno escluso. Qual è la sapienza primigenia di cui parla il Siracide (1,4)? Qual è la sapienza che passando attraverso i cuori prepara i profeti (cfr. Sap 7,27)? Senza rispondere prima a questa domanda ogni nostro ragionamento rischia di essere fondato sulla sabbia.
Conosciamo tutti la differenza fra la vera sapienza e l’erudizione. Sappiamo tutti anche quanto velocemente invecchino le novità tecnologiche e come non sia nella tecnologia, e dunque nemmeno nella intelligenza artificiale, che troveremo la risposta ultima alle nostre domande prime. E allo stesso modo in cui sappiamo di non potere e di non dovere demonizzare né l’erudizione né la tecnologia; sappiamo anche che dobbiamo cercare altrove. La vera sapienza nasce dall’esperienza delle cose vi- ste e vissute con una intensità che ci trascende. C’è infatti un rovesciamento totale nel messaggio cristiano rispetto al concetto di sapienza. Da lì occorre- rebbe ripartire.
Ora più che mai ciò di cui abbiamo bisogno è trovare un fondamento etico, antropologico, sapienziale, alla tecnica; ribaltare il teorema secondo cui tutto ciò che è possibile sia giusto per domandarci invece come fare in modo che ciò che è giusto sia possibile. Solo una relazione, una connessione fondata sull’amore può renderci meno soli, può durare, può renderci felici. Qui è la radice di ogni comunicazione.
Per questo la connessione da sola non basta. Per questo il marketing e la propaganda hanno il fiato corto. Avvertiamo tutti, istintivamente, il limite dell’idea superba che la tecnologia basti a sé stessa — e a noi — per soddisfare il nostro bisogno di conoscenza e di relazione, di appartenenza a una “insiemità” che ci trascende. E vediamo tutti, con un misto di entusiasmo e di disorientamento, sia il rischio che l’opportunità — come scrive il Papa — della modificazione di alcune basi della convivenza civile. La questione non è essere favorevoli o contrari alle cosiddette intelligenze artificiali, né l’alternativa cui siamo di fronte dopo il loro avvento sta nello scegliere fra una visione catastrofica e una palingenetica della storia della comunicazione.
La questione realisticamente sta nel domandarsi come gli algoritmi, e le macchine che li elaborano, possano essere al servizio dell’uomo, della verità, della conoscenza, della presa di coscienza, della bellezza e della loro condivisione. E nel rispondersi che ciò che conta è evitare che essi contribuiscano invece a creare un sistema di dominio che, polverizzando tutto, prescinda anche dal vero, dal giusto e dal bello; e, anonimizzando le responsabilità, simulando le emozioni, finisca con il tessere una rete dove l’unicità della persona è mortificata insieme alla sua dignità, e dove l’intelligenza artificiale è erroneamente considerata infallibile, invulnerabile, Vivere con pienezza il nostro tempo onnisciente contraddicendo anche il presupposto scientifico dietro cui si nasconde. Qui è il bivio.
La questione è se e come lo sviluppo delle intelligenze artificiali possa aiutarci a diventare più uomini o possa spingerci a svalutare la nostra umanità. In che modo questo strumento renderà più forti, e più vere, le relazioni fra gli individui e più coese le comunità, e in quale altro invece aumenterà la solitudine di chi già è solo, privando ognuno di noi di quel calore che solo la comunicazione vera può dare. Sta nel capire se il fine ultimo è ancora permettere una vita sempre più piena a ogni essere umano o è divenuto invece la pretesa di standardizzazione, normalizzazione e controllo della irripetibilità di ogni storia.
Sta nella possibilità o impossibilità di lavorare affinché l’intelligenza artificiale porti più eguaglianza e non costruisca invece nuove caste basate proprio sul dominio informativo accettando come inevitabili nuove forme di sfruttamento e di diseguaglianza fondate sul possesso degli algoritmi e sulla estrazione di dati dalla inesauribile miniera delle nostre vite. Sta nel porsi o nel non porsi delle regole e dei limiti; per esempio, sugli algoritmi di indicizzazione e deindicizzazione dei motori di ricerca capaci di esaltare o cancellare persone e opinioni, storie e culture secondo criteri estranei alla verità.
La domanda di fondo riguarda dunque l’uomo non la macchina, la relazione fra gli uomini non fra gli algoritmi. E non è una domanda astratta. Essa riguarda esattamente le nostre vite, la nostra libertà, il nostro libero arbitrio. Riguarda il potere di chi controlla i sistemi di calcolo, riguarda il rapporto tra chi calcola e chi suo malgrado è calcolato, riguarda i criteri di calcolo, riguarda il limite tra ciò che può essere calcolato e ciò che no, non può, perché non è un numero: perché è unico, perché è infinito. Come ha scritto Romano Guardini, citato dal Papa, per dirci senza giri di parole che non possiamo sfuggire al nostro tempo e che il nostro posto è nel divenire, nessuno di noi accetta di essere semplicemente un caso della specie uomo: io sono io. Sono uno, sono solo uno, non posso essere raddoppiato. Non posso essere imita- to, di me non può essere fatto un caso. «Posso contare gli uomini? […] Ma che cosa ho contato? […] Si può contare ciò che è irripetibile? Ovviamente no prenden- do seriamente il concetto di irrepetibilità». Ecco il limite: ci sono cose che non si possono misurare; cose che non si possono comperare: la relazione, la cura, la compassione, la collaborazione, la non separazione sono le qualità che il paradigma riduzionista, tecnicistico, utilitaristico della tecnica non contempla. Sarebbe un clamoroso errore pensare di applicare alla comunicazione (e all’informazione) questo stesso paradigma che riduce tutto a un calcolo istantaneo e scambia la reazione con la riflessione, il computo con la comprensione.
Come ha scritto il cardinale Carlo Maria Martini, solo la pazienza ci permette di decifrare le cose. Persino Dio è paziente con noi. E si rivela nella penombra. Perché l’eccesso di comunicazione annienta l’altro e lo annulla. Ogni comunicazione è graduale, prudente, rispettosa dell’altro. Il Papa, nell’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, indica che oggi è possibile navigare su due o tre schermi contemporaneamente, e interagire in diversi scenari virtuali. Ma senza la sapienza del discernimento possiamo trasformarci facilmente in burattini alla mercé delle tendenze del momento.
Qui è il campo della nostra testimonianza, come comunicatori, come rete di comunicatori, come giornalisti, cercatori di una verità che ci trascende, che nasce dalla relazione, dall’ascolto e che proprio per questo se pure può essere aiutata dalla intelligenza artificiale non può essere delegata al mero calcolo delle macchine che pretendono di sapere già tutto e di dover solo tirare fuori una sintesi dai dati che hanno immagazzinato. Non c’è cammino così. Nessun divenire. Ma solo un marciare sul posto, senza libertà, senza intelligenza. Nessuna comunicazione senza pluralismo.
In questo senso anche il tema delle regole va compreso. Guai se pensassimo che esiste un algoritmo della verità senza libertà. Come scrive il Papa, è proprio in questa idea totalitaria che si nasconde la tentazione di ridurre «le persone a dati, il pensiero a uno schema, l’esperienza a un caso, il bene al profitto».
Ma non c’è libertà senza responsabilità, così come al contrario nessuna responsabilità è possibile senza libertà. Garantire la interoperabilità delle piattaforme vuol dire restituire la libertà a ognuno e chiedere un diverso modello economico. Parlare di responsabilità delle piattaforme vuol dire indagare il confine tra la responsabilità del singolo e quelle della piattaforma che, mediante un sistema di algoritmi, diffonde quel che egli scrive. Parlare di trasparenza significa porre l’accento sulla opacità che rischia altrimenti di caratterizzare tutto. Parlare di sostenibilità significa non sottovalutare ancora una volta il costo delle nostre azioni, non fare con le terre rare lo stesso errore di sempre nell’industria estrattiva e non sottovalutare il tema del consumo energetico, non allargare il solco del digital divide.
Non sono domande di rito. Nemmeno pongono problemi irrisolvibili. Chiedono piuttosto un impegno per una libertà vera, per una sapienza umana.
Quello che ci è chiesto è vivere con pienezza il nostro tempo, che non è artificiale; è non aver paura delle sue sfide e dei suoi doni, che sono naturali; è costruire un nuovo umanesimo nella verità e nella giustizia; è leggere e narrare la storia con l’intelligenza del cuore, con la sapienza dell’amore, senza confondere i mezzi con i fini, la verità con la menzogna, la capacità di calcolo con la capacità di ascolto. Quello che ci è chiesto è rimanere umani. E diventarlo sempre di più.
di Paolo Ruffini