4 giugno 1944: la liberazione di Roma
Il drammatico incontro il 3 giugno in Vaticano fra l’ambasciatore di Berlino e monsignor Tardini

Le ore concitate della fuga dei tedeschi e il timore
di Pio XII per la “città aperta”

 Le ore concitate della fuga dei tedeschi e il timore di Pio  xii  per la “città aperta”  QUO-125
04 giugno 2024

In una bella canzone di Amedeo Minghi, 1950, s’intravvede una Roma tornata alla vita dopo la guerra. Riaffiorano sequenze a colori dei “Combat film” girati tra il 4 e il 5 giugno del 1944: i visi riaccesi dalla speranza di pace, le campane a festa, gli alleati ammirati dagli antichi acquedotti fra l’Appia e la Casilina; tornare, semplicemente, alla vita.

La paura per le sorti di Roma aveva sempre accompagnato Pio xii , romano anche lui come parte della sua Curia. Nel discorso ai suoi prelati del 2 giugno 1944 (festa di Sant’Eugenio) egli aveva mostrato che Roma era in cima ai suoi pensieri; non cercava gloria, ma solo di agire «soccorrendo tutti, senza distinzione di nazionalità e di stirpe», sperando di «cooperare affinché alla umanità tormentata dalla guerra possa essere affine ridonata la pace».

Non si avvertiva in quei giorni la vigilia della liberazione di Roma. «Accanto alle voci di saggezza e di moderazione — ammoniva Pio xii , nel ricordato discorso del 2 giugno — non mancano altre di mal dissimulata violenza o di aperto annunzio di vendetta». Avrebbe vinto la clemenza verso il vinto, o invece la crudeltà? Erano questi i timori del pontefice mentre gli Alleati giungevano a Roma. E i timori erano alimentati dagli stessi Alleati: «Se i tedeschi scelgono di difendere Roma — si legge in una loro dichiarazione, diffusa il 3 giugno — gli alleati saranno obbligati a prendere le debite misure militari per cacciarli. È pertanto loro speranza che il nemico non farà una così sconsigliata scelta». A parlare così era stato l’ammiraglio Sir Henry Maitland Wilson, comandante britannico delle forze alleate in Mediterraneo.

Ma il generale Kesselring non svelava i suoi disegni. In una telefonata con l’Ambasciatore tedesco in Vaticano von Weizsäcker, si era lamentato dell’assenza nel discorso di Pio xii «di una lode ai comandi germanici per il nutrimento della popolazione di Roma». Pronta la risposta di Tardini a tali rilievi: «A prescindere dal fatto che i tedeschi, come occupanti, hanno il dovere e l'interesse di nutrire la popolazione di Roma, il Santo Padre ha esplicitamente encomiato l'opera “delle autorità”».

Ancora il 3 giugno 1944 era diffusa la convinzione che la partenza dei tedeschi da Roma non fosse imminente. «Infatti — narra sempre Tardini — un ufficiale superiore tedesco ha detto a S. E. Weizsäcker che il maresciallo Kesselring ha mandato i camion tedeschi a caricare viveri per Roma: dunque (ne conclude S. E. Weizsäcker) c'è ancora del tempo prima che le truppe tedesche lascino Roma».

Ma alle 22.15 di quello stesso 3 giugno, il Sostituto monsignor Montini (futuro Paolo vi ) telefonò a Tardini. L’ambasciatore tedesco chiedeva urgentemente udienza. Un quarto d’ora dopo, Tardini lo riceveva al palazzo del Governatorato, insieme a Montini. Il diplomatico aveva un progetto tedesco per salvare Roma. «Scorro il progetto — narra Tardini — si tratta di riconoscere una parte di Roma come città aperta. A me il progetto pare sia fatto più per salvare la ritirata delle truppe tedesche che per salvare Roma». Fra le varie obiezioni Tardini osservò che «i limiti della Città Aperta, come sono proposti, lasciano fuori una buona parte di Roma: mi pare rimanga fuori anche S. Paolo. Ora il Papa ha sempre insistito perché tutta Roma sia salva […]. Da due mesi a queste parti, gli Alleati non hanno più bombardato se non le zone estremamente periferiche dell'Urbe. Come si fa ora ad... autorizzarli a bombardare una parte di Roma?».

Invero, Kesselring aveva già ricevuto dal Comando supremo della Wehrmacht l’ordine di spostarsi a nord di Roma. E infatti, fra l’una e le quattro del mattino di quel 3 giugno, lungo corso Vittorio Emanuele ii , v’era stato un continuo sfilare di truppe in ritirata. «S. E. Weizsäcker tenta negarlo — commentava Tardini — secondo lui erano i viveri per la popolazione di Roma […]. Dichiara che Kesselring è calmo; che non c’è urgenza, ma aggiunge che il fatto stesso della sua venuta in Segreteria a quell’ora mostra che non bisogna tardare. L'Ambasciatore vuol parer sereno e tranquillo, ma non lo è. Ha addosso fretta e paura».

Von Weizsäcker uscì dal Governatorato vaticano alle 23.10. Lungo via della Conciliazione e piazza San Pietro passava una rumorosa fila di carri armati, in ordinata sequela verso la via Aurelia. «Sono i Tedeschi che fuggono, attraversando la Città aperta, la Innenstadt» da loro progettata.

In effetti, già dalla notte fra il 2 e il 3 giugno 1944, intenso era stato il traffico di carri armati, soldati, veicoli e altro materiale tedesco. «Le truppe si ritiravano: in ordine, sì, ma erano stanche e abbattute — commentava sempre Tardini —. A molti facevano pena. Avevano requisito tutti i mezzi possibili di trasporto: automobili, carrozzelle da piazza con il vetturino, fin anche carri con i buoi. È una teoria interminabile. La popolazione guarda e non dice nulla. Dà prova di disciplina. Lo spettacolo è desolante perché si vedono militari avviliti, demoralizzati, sfiniti (se gli Alleati avessero fegato e velocità ne avrebbero fatti prigionieri decine di migliaia!): ma è anche consolante perché si vedono umiliati i prepotenti, annientati i violenti».

Nel pomeriggio del 4 giugno 1944 le truppe alleate si avvicinavano alla Capitale. Nella notte fra il 4 e il 5 entravano in Roma. Il 5 giugno Pio xii parlava al popolo romano, grato che alla città fossero state risparmiate distruzioni, rinnovando «in perenne memoria» il culto mariano ed esprimendo riverenza per gli Apostoli Pietro e Paolo. Il Papa invitava anche a superare fraternamente «gli impulsi alle interne e alle esterne discordie», e a frenare istinti di rancore e di vendetta. «Questa mattina alle 7 il Papa si è affacciato per benedire la folla, alle 10 idem — annotò Tardini il 5 giugno —. C’era un carro armato americano a piazza S. Pietro: il Papa mi ha telefonato tre volte per farlo allontanare. Incarico mons. Carroll e Vagnozzi. Tornano dando assicurazioni. Un altro carro armato sopraggiunge. Il S. Padre non si affaccia più».

La festosa gioia nelle strade di Roma per la liberazione non cancellò le tragedie di un’Italia spezzata. Guido Gonella, dirigente democristiano e in quegli anni curatore degli Acta Diurna per questo giornale, comunicò la richiesta del C.L.N. di un intervento vaticano per i prigionieri politici di via Tasso e perché non fossero trasferiti al nord. Tra loro c’era il sindacalista Bruno Buozzi. Il padre Pancrazio Pfeiffer, generale dei salvadoriani, intervenne presso Kappler ma invano. Nella notte del 3 giugno 1944, Buozzi partì su un camion tedesco; invitato a scenderne per il carico eccessivo, preferì far scendere un compagno. All’alba del giorno dopo, i tedeschi lo avrebbero ucciso a freddo sulla Giustiniana, con altri tredici compagni.

Roma si liberava nelle voci festose della rinascita. Ma il cammino verso la pace italiana era ancora lungo.

di Matteo Luigi Napolitano


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