Intervista con il cardinale Jean-Marc Aveline in occasione della presentazione del suo nuovo libro

Missione e dialogo

 Missione e dialogo  QUO-100
03 maggio 2024

Un dialogo con tutte le religioni e culture sul modello di quello che Dio ha intessuto con l’umanità attraverso la storia dell’Alleanza: è l’appello che il cardinale Jean-Marc Aveline, arcivescovo di Marsiglia, rivolge ai fedeli nel suo libro intitolato Il dialogo della salvezza. Piccola teologia della missione (Libreria editrice vaticana, 2024, pagine 128, euro 14) chiamando anche ad approfondire il senso della cattolicità della Chiesa. Il porporato era presente ieri a Roma alla presentazione del volume nella sede della Comunità di Sant’Egidio, a cui hanno partecipato monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita, Lorenzo Fazzini, responsabile editoriale della Lev, e suor Lucia Bortolomasi, superiora generale delle Suore missionarie della Consolata.

Eminenza, potrebbe spiegare in poche parole il legame tra dialogo e missione che sviluppa nel suo libro?

L’opera si presenta come una piccola teologia della missione. Ho raccolto un certo numero di cose che ho compreso meglio sulla missione partendo dal mio ministero, focalizzato in particolare sulle questioni relative al dialogo interreligioso. Soprattutto ho capito che non possiamo contrapporre dialogo e missione: il dialogo fa proprio parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. Nell’enciclica Ecclesiam suam, di cui il prossimo 6 agosto si celebrerà il 60° anniversario, Paolo vi afferma che noi confessiamo che Dio, per rivelarsi, ha fatto la scelta di entrare in dialogo con l’umanità, dialogo che la Bibbia racconta sotto forma di una storia di alleanza. È perché confessiamo questo, che non è affatto ovvio, che comprendiamo che la missione della Chiesa consiste anche nel dialogare con l’umanità adeguandosi all’atteggiamento di Dio.

Lei è molto impegnato nel dialogo con l’islam e l’ebraismo. È possibile coniugare missione e dialogo interreligioso?

La missione della Chiesa inizia con la creazione di questo clima di dialogo. Sempre in Ecclesiam suam, Paolo vi afferma che «il clima del dialogo è l’amicizia. Anzi il servizio». È ciò che hanno capito Charles de Foucauld, Pierre Claverie e molti altri: la necessità di un clima tale da renderci accomunati dalle stesse questioni esistenziali fondamentali. Ed è allora che l’annuncio del Vangelo può essere fatto ma non come un mero slogan che non tenga conto delle domande esistenziali dell’altro. Se consideriamo la missione senza tener conto dell’esistenza concreta dell’altro, delle domande concrete che si pone, rischiamo di fare di essa una semplice parola, ma non una realtà.

Come evitare ogni confusione tra espansione missionaria e imperialismo culturale?

Non è facile, perché nel corso della storia i missionari hanno spesso accompagnato coloro che stavano per colonizzare un determinato paese o che viaggiavano per motivi commerciali. Ma ciò non ha impedito ai missionari di avere idee proprie, a volte anche di non corrispondere a quello che ci si poteva aspettare da loro in termini di interessi commerciali o politici. Quindi la parola che ci permette di evitare questa confusione è libertà. La Chiesa deve mantenere la sua libertà, deve resistere alla tentazione di confondersi semplicemente con gli interessi economici e sociali colonizzatori. Ma quando guardiamo alla storia, anche quella della missiologia, ci rendiamo conto che dobbiamo molto ai missionari, soprattutto nel xix secolo, nella conoscenza etnologica, antropologica delle culture in cui si trovavano. E perché spesso rappresentavano per i paesi di missione l’inizio dell’autonomia e di una sempre maggiore indipendenza rispetto agli interessi delle nazioni da dove questi missionari erano partiti.

Lei afferma che «è spesso perché la nostra teologia non è abbastanza trinitaria che la nostra azione missionaria manca della sua dimensione dialogica». Come risolvere questo problema?

C’è tanto da fare su questo perché il cristianesimo occidentale ha meno sviluppato la teologia dello Spirito santo rispetto al cristianesimo orientale; da noi è piuttosto la nozione di grazia che ha prevalso. Abbiamo bisogno di elaborare una teologia dello Spirito santo capace di evitare due insidie troppo frequenti: quella di una pneumatologia “decristologizzata”, che dimentica che lo Spirito presente e operante nel mondo è lo Spirito del Figlio, e quella di una pneumatologia “destoricizzata” che trascura la concretezza dell’Incarnazione a favore di una gnosi esoterica che faccia del Figlio un “avatar” dello Spirito.

Lei ricorda anche che lo Spirito santo soffia dove vuole, e non solo nell’ambito dell’istituzione ecclesiale.

Citerò qui Giovanni Paolo ii che, nella sua enciclica Redemptoris missio del 7 dicembre 1990, afferma che «la presenza e l’attività dello Spirito non toccano solo gli individui ma la società e la storia, i popoli, le culture, le religioni». Parole che il Papa ha confermato con gesti come l’incontro di Assisi nel 1984 o la visita alla sinagoga di Roma nel 1986. Quando baciava la terra al suo arrivo nei paesi visitati, ciò significava che lo Spirito santo aveva già abitato queste terre ancor prima che vi arrivassero i missionari. Nel pensiero di Giovanni Paolo ii questo apprendimento della cooperazione con lo Spirito santo è fondamentale, perché quest’ultimo è comunque presente ovunque. Non c’è nulla di umano che non sia estraneo alla presenza e all’azione dello Spirito.

Nel libro approfondisce anche il tema della cattolicità della Chiesa. È un concetto da ripensare?

In passato tendevamo troppo a fare della parola cattolicità solo un’etichetta che ci distingueva dai protestanti, dagli ortodossi, eccetera, mentre è una delle quattro note del Credo per definire la Chiesa e così come le altre ha una dimensione escatologica. Pertanto siamo chiamati a pensare la cattolicità in modo dinamico e non statico: una cattolicità in fieri, in divenire, direi. Nel libro faccio anche l’ipotesi che, vivendo la sua vocazione di cattolicità, la Chiesa, già sacramento di unità e fermento di fraternità, si inserisce nell’opera ricapitolatrice, ricevendo in sé stessa il mistero pasquale, mediante il quale Dio ha voluto, attraverso la morte di suo Figlio, riunire insieme tutti i suoi figli dispersi.

di Charles de Pechpeyrou