La storica visita di Papa Francesco alla Biennale di Venezia apre nuove piste per il dialogo della Chiesa con gli artisti. Che tale dialogo avvenga non in un museo, ma in una prigione in attività, ben esprime quanto si intenda adottare un punto di vista innovativo, dove la Chiesa e la produzione artistica contemporanea si incontrino nel servizio agli ultimi. Per questo il Santo Padre ha affermato: «Vi confesso che accanto a voi non mi sento un estraneo: mi sento a casa. E penso che in realtà questo valga per ogni essere umano, perché, a tutti gli effetti, l’arte riveste lo statuto di “città rifugio”, un’entità che disobbedisce al regime di violenza e discriminazione per creare forme di appartenenza umana capaci di riconoscere, includere, proteggere, abbracciare tutti. Tutti, a cominciare dagli ultimi».
Seguendo il magistero di Francesco, il Padiglione della Santa Sede alla lx Biennale d’Arte di Venezia ha fatto questa scelta. Le vere protagoniste sono le donne detenute nel carcere femminile dell’isola della Giudecca, non solo perché l’esposizione è stata concepita in dialogo con loro, ma anche perché adesso sono loro stesse a guidare i visitatori lungo il percorso. I grandi sostenitori dell’iniziativa sono i curatori artistici Bruno Racine e Chiara Parisi, due personalità internazionali di straordinaria saggezza e coraggio, supportati da un’équipe di produzione eccezionale. Coraggiosa e degna di nota — ho il dovere di sottolineare — è stata sin dal primo istante l’apertura delle autorità italiane responsabili, a livello tanto nazionale come regionale e locale.
L’opera che ci accoglie è quella di Maurizio Cattelan, essendo l’unica posta all’esterno della prigione. Occupa l’intera facciata di quella che era la cappella dell’antico convento. Cattelan ha scelto di dipingervi, in modo realistico e monumentale, dei piedi. Si intuisce che in profondità c’è un corpo disteso, di cui noi vediamo soltanto questi enormi piedi silenziosamente nudi. La sensazione è che quei piedi ci siano familiari, di averli già visti da qualche parte (fuori o dentro di noi). Potremo immediatamente riconoscervi una citazione di opere fondamentali del canone occidentale, come il Cristo morto di Mantegna o la Madonna dei Pellegrini di Caravaggio. Sono in effetti un misto di profanità e sacralità, quei piedi deliberatamente posti in quella posizione verticale e fuori scala, monumentali piedi ieratici, disegnati davanti ai nostri occhi come fossero un’icona. E, allo stesso tempo, come costituissero un appello alla compassione, perché è necessario vegliare e piangere per la sofferenza documentata dall’impronta esposta di ogni vita.
Iniziamo poi la visita all’interno della prigione, seguendo tutte le procedure abituali per l’ingresso in luoghi come questi: registrazione documentale, spogliarsi temporaneamente degli oggetti che portiamo con noi, lasciare il cellulare nell’armadietto. Nel titolo del padiglione c’è questa sfida a vedere con i propri occhi, rompendo, da un lato, con l’automatismo di un’epoca di sovraccarico rumoroso di immagini e, dall’altro, con la facilità con cui oggi deleghiamo alla tecnologia l’esercizio della nostra visione delle cose.
La seconda stazione artistica è rappresentata dai lavori di Corita Kent. Sono esposti nella caffetteria della prigione. Ricordo il modo in cui ho sentito parlare di questa artista dal curatore Bruno Racine: affronta le cose più serie con l’approccio più gioioso. E c’è davvero una gioia inaspettata nell’aria, trasmessa dalle immagini che lei creava. Corita propone una visione provocatoriamente mistica della realtà. Trasformava improbabili materiali ritagliati dalla pubblicità in palinsesti capaci di rivelare vestigi della contemporanea ricerca di Dio. Per questo, così come Dorothy Day è stata una mistica del sociale e della difesa dei più vulnerabili, Corita Kent è stata una mistica nel campo estetico e nella pop art. Credeva che le cose più banali, collocate in un determinato angolo di visione, potessero diventare per noi dei segnali. E intercettava così la presenza di Dio in un mondo dal quale si direbbe che è, in apparenza, assente.
Uscendo, percorriamo un lunghissimo e stretto corridoio esterno, dove sono esposte le opere di Simone Fattal. Simone ha ricevuto testi e poesie dalle donne che sono ospiti in questa prigione, e li ha scritti a mano su lastre di pietra lavica. Il risultato è di una intensità folgorante che non ci lascia più, perché ci insegna che ascolteremo veramente le parole solo se le ascolteremo anche con i nostri occhi. Infatti, davanti a queste lastre, le autrici delle parole le leggono ai visitatori, ed è uno di quei momenti di altissima responsabilità, perché noi vediamo, leggiamo e ascoltiamo, e d’ora in poi non possiamo più ignorare.
Alla fine del corridoio, in dialogo con una cabina di controllo, si trova la prima delle opere del collettivo Claire Fontaine. La prima ci propone di riflettere sulle scelte politiche e umane che stanno dietro a ciò che vogliamo vedere o non vedere. La seconda, nel vuoto dell’enorme cortile interno della prigione, accende al neon il messaggio: “Siamo con voi nella notte”. Uno degli aspetti importanti del lavoro di Claire Fontaine è il pensiero sulla comunità. E, in questo senso, esprime pienamente lo spirito con cui questo padiglione è costruito: quel che si ricerca è l’empatia di un ascolto impegnato nell’umano, non la pratica di un qualsiasi voyeurismo.
Attraversando il cortile, entriamo in un piccolo spazio trasformato per far vedere un grande cinema. Marco Perego & Zoe Saldana presentano un film che, per tanti aspetti, ci rivela con impressionante delicatezza lo sguardo delle donne detenute, la loro fragilità e la loro speranza, trasformate in parabola dell’indicibile fragilità e speranza della condizione umana. Il gesto dirompente dell’opera di Perego & Saldana rende le detenute narratrici della storia collettiva, e questo ci obbliga a pensare in modo nuovo, nella linea di quanto Papa Francesco ha detto lì: «Paradossalmente, la permanenza in una casa di reclusione può segnare l’inizio di qualcosa di nuovo... Per favore, non “isolare la dignità”, non isolare la dignità ma dare nuove possibilità!».
L’artista Claire Tabouret ha chiesto alle detenute fotografie di sé stesse quand’erano bambine, o dei loro figli e nipoti, e ha creato una galleria di ritratti. È una delle opere più emozionanti, e si capisce il perché. Perché, all’inizio, per tutti c’è l’innocenza, il volo della leggerezza di tutti i corpi sulla terra, lo stupore e la meraviglia. In certi momenti, il sorriso è stato più grande e più importante della ferita. E riconoscerlo ci solleva da terra.
L’ultima opera visibile nel percorso, dell’artista brasiliana Sónia Gomes, ci esorta precisamente a questo: a sollevare lo sguardo. Appese al soffitto, ci sono sculture elaborate con tessuti che erano stati indossati da donne e poi donati all’artista. Raccogliere tessuti significa, per Sónia Gomes, raccogliere storie e custodirle in quelle sorte di bozzoli scultorei che, secondo il racconto delle detenute, ricordano i bozzoli in cui le larve si metamorfizzano in farfalle.
Oltre a queste opere materiali, il Padiglione della Santa Sede accoglie l’intervento della coreografa Bintou Dembelé, che traduce in movimento e danza il fatto che, pur provenendo da universi differenti, noi respiriamo «la stessa aria, di un tempo senza ora».
di José Tolentino de Mendonça
Cardinale prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione