Hic sunt leones
I Concordati africani
Le relazioni tra la Chiesa cattolica e i governi africani hanno una rilevanza che il mondo missionario ha sempre apprezzato. Peraltro, nell’attuale congiuntura internazionale, segnata dalla crisi del multilateralismo, il ruolo della Santa Sede acquista un grande significato, in particolare guardando al cosiddetto Global South.
La fitta rete di relazioni, da quelle ufficiali tra i vari Stati a quelle meno ufficiali e allo stesso tempo significative che si intessono all’interno delle varie realtà ecclesiali, esprimono in effetti la forma più alta e nobile di soft power. È in questo solco che diventano sempre più intelligibili per la loro importanza i concordati per regolare le relazioni tra il potere ecclesiastico e quello civile. Motivo per cui chi scrive ha trovato davvero illuminante la lettura di un recente saggio del professor Antonello Blasi, docente di Diritto concordatario ed ecclesiastico presso l’Università Lateranense.
L’autore parla infatti di accordi internazionali giuridicamente vincolanti tra la Santa Sede e gli Stati africani o gli organismi africani (come nel caso dell’Unione africana), secondo lo spirito etimologico del «cum-cor-dare», su materie specifiche e pertinenti, come lo statuto giuridico della Chiesa e delle istituzioni ecclesiastiche, la libertà religiosa, la libertà di religione e di culto, la collaborazione tra le istituzioni di insegnamento e sanitarie, la sovranità, i vantaggi concessi alla Chiesa, l’indipendenza e l’autonomia, i problemi di interpretazione assieme alle loro risoluzioni. Come ha poi ben evidenziato nella presentazione del saggio il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, siamo di fronte ad una «fioritura concordataria», «legata in primo luogo, alla crescente proiezione internazionale degli Stati africani».
La descrizione di tutti questi concordati nel saggio di Blasi potrebbe far pensare che il più sia fatto, ma è lo stesso autore a “incitare” le Chiese particolari nel loro aggregarsi in Conferenze episcopali a non ritenere il traguardo già conseguito. Di fatto, l’Africa è un continente in continua e progressiva evoluzione con dinamiche estremamente peculiari. Perciò, l’implementazione degli accordi nell’assicurare, ad esempio la libertà della Chiesa per svolgere la propria missione di evangelizzazione, dipende fondamentalmente dall’implementazione che i governi daranno o stanno dando agli accordi.
A seguito della stagione delle indipendenze, che raggiunse il suo apice negli anni Sessanta del secolo scorso, in Africa si è aperta una stagione di proficuo dialogo bilaterale a livello internazionale con la Chiesa cattolica, autentica «Agenzia di umanità», riconosciuta a livello planetario, la cui autorevolezza è ben testimoniata dai numerosissimi accordi e concordati vigenti nei vari continenti.
Inoltre, è la Chiesa che assicura, attraverso le sue istituzioni e realtà missionarie (ordini, congregazioni, società di vita apostolica, movimenti, associazioni…), gran parte di ciò a cui lo Stato dovrebbe provvedere: sanità, educazione e altri servizi sociali.
Anche se in Africa negli ultimi due decenni sono stati registrati notevoli progressi in termini di partecipazione, con un forte coinvolgimento della società civile, la realtà sociopolitica, nella quale spesso la Chiesa è chiamata ad operare, è a volte segnata da perniciose diseguaglianze e limitazioni di vario genere.
È d’ispirazione cattolica il 70 per cento del welfare sanitario presente nel continente africano, secondo dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Basterebbe visitare ospedali come quello di Lacor nell’arcidiocesi ugandese di Gulu, per comprendere la portata degli interventi messi in campo a difesa del diritto sacrosanto della salute. E cosa dire dell’istruzione? Kwame Nkrumah, primo premier e poi primo presidente del Ghana indipendente, oltre ad essere stato il grande visionario del Panafricanesimo, non perse mai occasione per elogiare il contributo educativo della Chiesa cattolica finalizzato al progresso dell’Africa.
Nel 1957, intervenendo in una conferenza agli universitari a Friburgo in Svizzera, lo statista ghanese si espresse con queste testuali parole: «La persona che mi ha presentato ha detto che io sono il responsabile del ridestarsi di questo grande continente. Credo che non sia vero. Se vogliamo considerare la situazione in modo più esatto, debbo dire che i responsabili della presa di coscienza di noi africani sono stati i missionari cristiani con le loro scuole».
È bene comunque chiarire le modalità con le quali viene stipulato in termini generali un concordato tra la Santa Sede e un singolo Stato e/o Organizzazione. L’avvio di un negoziato non nasce mai da una richiesta esplicita della Santa Sede, ma dal Paese interessato. In questo modo la Santa Sede mantiene una posizione non interferente nella vita politica di ogni singolo Stato. La prassi normale prevede che l’avvio di un accordo nasca da una richiesta proveniente dal governo pro tempore, anche se a volte l’iniziativa parte dalla Conferenza episcopale locale di concerto con il nunzio apostolico in loco, che avanza la richiesta alla Santa Sede.
Detto questo, considerando che solitamente, nel prologo degli accordi e nei primi articoli dei concordati attualmente vigenti, le parti si impegnano ad «agire congiuntamente a favore del progresso spirituale e materiale delle persone, così come alla promozione del bene comune» (come si legge nel Concordato con la Guinea Equatoriale) e ad affermare «la dignità della persona umana, della giustizia e della pace» (Concordato con Capo Verde), è evidente che la posta in gioco è alta.
Sebbene vi sia, in termini generali, un proficuo dialogo pluri-ordinamentale con i governi e con le altre confessioni religiose presenti in Africa, persistono alcune criticità (in positivo potremmo definirle sfide) che evidenziano le differenze in atto tra una soft power per eccellenza quale è appunto la Chiesa cattolica e i governi locali che coltivano, con differenti declinazioni, interessi nazionali non sempre in linea con il magistero della Chiesa. Proviamo a vedere di cosa si tratta.
Innanzitutto, sono ancora numerose le aree di conflitto nella macroregione subsahariana: dalla fascia saheliana al Corno d’Africa; dalla Nigeria settentrionale al settore nordorientale della Repubblica Democratica del Congo, per non parlare della conflittualità in atto nel nord del Mozambico. Da questo punto di vista il florido commercio delle armi, unitamente allo sfruttamento delle commodity (fonti energetiche in primis) da parte di potentati stranieri più o meno occulti con evidenti complicità locali, causano penose sofferenze alle popolazioni autoctone e conseguentemente alle comunità cattoliche. L’impegno in favore della pace da parte dei governi, è bene sottolinearlo, spesso non coincide con la Dottrina sociale della Chiesa e le istanze della diplomazia della Santa Sede.
Vi è poi il tema della cooperazione che in termini generali dovrebbe rappresentare il superamento della logica assistenzialista all’insegna della cosiddetta “carità pelosa”. Infatti, se di cooperazione vogliamo parlare, essa non deve essere interpretata in senso univoco (esclusivamente come «dare»), ma come proficuo «scambio» e dunque collaborazione, con l’intento dichiarato di promuovere l’agognata sostenibilità per garantire uno sviluppo che sia a servizio della comunità. Occorre riconoscere che in alcuni Paesi le legislazioni vigenti a volte limitano o impediscono che ciò avvenga.
Rilevante è anche la questione del debito contratto dai Paesi africani. La Santa Sede com’è noto, è sempre stata attenta a questo tema che certamente verrà rilanciato in occasione del prossimo Giubileo. Trattandosi di una vexata quaestio legata alla difesa della dignità umana e alla giustizia, rappresenta un terreno di collaborazione per la ricerca di soluzioni fattive tra i governi e la Santa Sede come intermediaria con il consesso delle nazioni e le istituzioni internazionali. Da quando i governi africani hanno sostituito il debito multilaterale a basso costo e lungo termine con un debito verso creditori privati (assicurazioni, banche, fondi di investimento, fondi di private equity) molto più oneroso e a breve termine, si è acuita la povertà in Africa. Ecco che allora il debito non solo è diventato più costoso, ma è anche stato letteralmente finanziarizzato, con il risultato che il pagamento degli interessi è inscindibilmente legato alle attività speculative sui mercati internazionali. Questo ha comportato costi di servizio del debito e rischi di rifinanziamento più elevati con il risultato che la cifra assoluta del debito africano ha raggiunto i 1.140 miliardi di dollari. Si tratta di un valore assoluto certamente inferiore a quello delle economie avanzate. È però una cifra debitoria elevata se raffrontata al valore complessivo del Pil africano che è di circa 3 trilioni di dollari. Per avere un confronto, basti pensare che quello dell’Unione europea è di 16 trilioni e mezzo.
Infine, vi è il tema della libertà religiosa che in alcuni Paesi non viene recepita negli ordinamenti locali o comunque con moltissime restrizioni. Si tratta di una sfida che certamente non può essere disattesa. La testimonianza e la vitalità della Chiesa africana dà comunque speranza, attraverso la martyria, per un futuro di autentica collaborazione.
Una cosa è certa: in un continente in cui l’età media è 20 anni e la popolazione ha superato il miliardo e 400.000 abitanti, è evidente che le giovani generazioni hanno bisogno di essere educate ai valori fondamentali della convivenza tra i popoli. E la Chiesa cattolica è parte attrice a fianco dei governi africani.
di Giulio Albanese