Il mare si alza e si abbassa, e mai una goccia si va a perdere. Le vite umane, invece, sì. Le vite dei migranti, soprattutto: come i 21 naufraghi morti e i 23 dispersi nella notte di lunedì al largo delle coste di Gibuti, dopo che la loro imbarcazione è colata a picco. La notizia di questo ennesimo “naufragio (non viaggio) della speranza” arriva dall’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni), che riferisce di operazioni di salvataggio che hanno permesso il recupero di 33 persone. A bordo del natante affondato, si specifica, c’era «almeno un bambino».
A rendere più sconfortante l’accaduto è il fatto che si tratti del secondo naufragio nella stessa zona in pochi giorni: solo l’8 aprile, un’altra imbarcazione con a bordo oltre 60 persone di nazionalità etiope, è affondata, provocando 38 vittime e 6 dispersi.
Anche la barca inabissatasi due giorni fa trasportava persone di origine etiope provenienti dallo Yemen. Il che conferma i dati dell’Oim, ovvero che la rotta migratoria che va dal Corno d’Africa all’Arabia Saudita attraverso lo Yemen è «una delle più importanti, pericolose e complesse dell’Africa e del mondo». Nel 2023, infatti, l’Oim stimava che almeno 698 persone fossero morte in questo stesso tratto di mare. Senza dimenticare, ribadisce l’Organizzazione, che durante il viaggio, i migranti — in fuga dal proprio Paese di origine a causa di povertà, violenze ed eventi climatici estremi — sono costretti ad affrontare anche «fame, rischi per la salute, trafficanti e altri criminali», restando privi di «assistenza medica, cibo, acqua, riparo».