Verso la Pasqua di Risurrezione/ 2

Una vita fatta di «ripartenze»

 Una vita fatta di «ripartenze»  QUO-058
09 marzo 2024

A colloquio con padre Angelo Vitali, al fianco di malati di Aids e carcerati


Si definisce con auto-ironia «un mortacciologo di chiara fama», perché parla spesso della morte. Padre Angelo Vitali, sacerdote monfortano, ha da poco compiuto 75 anni, ma la sua energia e il suo entusiasmo non sembrano arrestarsi. La sua vita è stata — ed è ancora oggi — a stretto contatto con persone emarginate e sofferenti, grazie agli oltre vent’anni di servizio a Villa Glori, la casa famiglia di Roma, voluta don Luigi Di Liegro, per malati di Aids. Proprio loro hanno contribuito a costruire nel sacerdote una fede viva e concreta, che ha dovuto misurarsi con la presenza costante della morte e della speranza di risurrezione.

Padre Angelo, lei...

Quando preghi Dio, gli dai del lei? E io sono forse più importante di Dio?

Dunque, “tu” hai conosciuto bene la condizione della sofferenza e della morte nel corso del tuo servizio a Villa Glori. Cosa ricordi di quegli anni?

L’8 dicembre del 1988 sono andato a vivere a Villa Glori su richiesta di don Luigi Di Liegro. Allora eravamo tutti terrorizzati dall’Hiv, tanto che in quel momento persi tutti gli amici. Nessuno voleva più vedermi, per paura di essere contagiato. Ricordo bene una sera, in cui venni bloccato dai nove ragazzi della casa, che mi chiesero: «Prete, parlaci della morte. Questa notte resti con noi e ci dici che c’è nella e dopo la morte. E la vita eterna? E l’aldilà? C’è o non c’è? E Dio perché ci ha messo in questa situazione? E la misericordia di questo Dio come possiamo sperimentarla?». Era il 1989 e, nel rispondere, mi trovo ancora in difficoltà. Era il primo nucleo di residenti e, per quanto volessero dare l’impressione di non porsi domande, un tormento interiore li lacerava. Veniva a galla una malcelata dimensione spirituale, che sfocerà per alcuni in un autentico cammino di conversione. Io rimasi lì tutta la notte e dissi loro: «Anche io come voi ho paura e, per dirvi qualcosa con certezza, dovrei essere morto. Un’ipotesi di lavoro potrebbe essere che, al di là di questa vita, c’è un aldilà, che darebbe anche un significato all’inizio. Il catechismo parla di morte, giudizio, inferno e paradiso. Io personalmente credo che sarà un giudizio paterno di un padre che accoglie i suoi figli. Proiettiamoci al paradiso».

La tua difficoltà, a rispondere a questa domanda, è la stessa difficoltà che incontra la Chiesa?

Sì, potrebbe essere. Ho sempre detto a questi giovani che le uniche parole da tenere in mente sono tre: Gesù Cristo, morto e risorto. Il resto è ininfluente. Se non è vero, questo, stiamo tutti perdendo tempo. Parlavo molto schiettamente all’epoca. Dicevo sempre loro che, se una persona è innamorata di Gesù Cristo, può fare a meno di tante cose. Con ironia dicevo anche: «Se la vostra missione è anche solo quella di mantenermi sacerdote, andrete tutti dritti in paradiso». Il cuore di tutto è proprio lì: innamorarsi di Gesù Cristo.

I ragazzi accolti nella casa, uno dopo l’altro, sono morti. Molti li hai accompagnati negli ultimi istanti, tenendo loro la mano. Ha visto nei loro occhi segni di speranza di una vita che continua?

Sì, ne ho visti di tutti i colori. Un volta un uomo egiziano musulmano, poco prima di morire, mi chiese se c’era un posto per lui nel «nostro» paradiso. Lui, come dicevo, era musulmano ma veniva a messa tutte le settimane: era sempre stato attratto dalle nostre liturgie e mi faceva molte domande. Ricordo bene anche un altro uomo. Quando stava per morire, mi disse: «Mio figlio, non si vergogni di aver avuto un padre tossico. Io ho scelto di fare il tossico. Se il Padre c’è, mi accetta così oppure sono fatti suoi». Volevo dirgli che erano anche un po’ fatti suoi, ma non aggiunsi niente. Mi rimane sempre nella testa. Non veniva mai a messa, ma poi mi diceva che, dalla sua stanza, sentiva forte la mia voce durante le omelie e che, alcune frasi, le portava dentro al cuore. Ho vissuto in una prateria umana piena di sentimenti belli. Questa gente non è come appare: bisogna trascorrerci del tempo insieme, mangiare, parlare, passare una nottata in riflessione con loro. Credo di non aver mai fatto discorsi così profondi come con loro. All’inizio rimanevo nella casa anche tutti i giorni, perché nessun operatore voleva, per la paura del contagio. I ragazzi erano dei santi, che sapevano sopportare la sofferenza fisica, non si lamentavano di nulla, pur essendo affetti, a volte, da tre o quattro tumori in contemporanea. Sono giovani che mi hanno restituito la voglia di fare il prete, anche se non sono mai andato in crisi. Quando ho iniziato a Villa Glori, avevo circa quarant’anni e loro erano poco più giovani di me. Abbiamo stabilito un vero rapporto di amicizia, tranne con una persona, che ancora ricordo. Prego per lui e gli chiedo perdono. Ora sono tutti morti. I primi due anni presiedevo anche 10-12 funerali al mese.

Per questo, padre Angelo, sei diventato noto per aver celebrato più di mille funerali. In quelle celebrazioni parlavi di risurrezione?

Assolutamente sì. Il Kerigma, l’annuncio fondamentale di Gesù Cristo morto e risorto, l’avevo sentito pronunciare per la prima volta chiaramente, ascoltando le catechesi del Cammino neoocatecumenale. Io, che ero un giovane prete, avevo sentito da un catechista dirmi: «Sappi che Dio ti ama così come sei». In tanti anni di seminario, questa frase non mi era mai stata detta da nessuno. Oltretutto, ero anche stato allontanato per quattro anni dal seminario, tempo che avevo trascorso a lavorare in fabbrica. Mi accusavano di giocare troppo a pallone e di parlare troppo di Gianni Rivera. L’unica cosa positiva che trovavano in me era il mio essere «vivace». Dunque, quando quel catechista mi disse quella frase, mi risuonò dentro come una notizia strepitosa. Era lo stesso che dicevo ai ragazzi di Villa Glori: «Voi siate quelle siete. Purtroppo gli atteggiamenti che avete avuto nella vita vi hanno portato qui». Ero molto diretto, per questo don Luigi Di Liegro mi volle in quella casa. All’epoca ce n’era un’altra a Trastevere e poi ce n’era una per le madri con bambini, affetti dall’Aids. Ho celebrato anche un centinaio di funerali di bambini, dai sei mesi a un anno e mezzo, e non li ho ancora “digeriti”. Tante volte ho chiesto al Padre Eterno che cosa c’entrassero quelle povere creature.

E hai trovato una risposta?

No, li annovero tra i martiri innocenti. Sono pieno di interrogativi. Io, i ragazzi, li avvicino, non tolgo loro le domande che si fanno, gliene aggiungo delle altre. Non sono “un fenomeno”, sono una persona normalissima, ma, insieme ai ragazzi di Villa Glori, abbiamo fatto cose meravigliose. Chiedo a Dio di darmi il paradiso, per questo. Tra le tante “pazzie” fatte insieme, c’è quella di averli portati, per otto anni, a fare le vacanze nel mio paese in provincia di Bergamo. In un mese, ci facevamo ospitare da circa sessanta famiglie diverse. I segni di risurrezione non andiamoli a cercare chissà dove: lo erano anche questa gente. Non tutti mi invitavano a pranzo e cena, perché molti dicevano che non se la sentivano, che avevano paura di essere contagiati da me o dai ragazzi. Però c’era una bella risposta dalla gente locale, che comunque ha pagato, perdendo in quegli anni tanti ragazzi, contagiati dall’Hiv. Al paese accoglievano i giovani di Villa Glori che, quando tornavano a Roma, stavano meglio in salute e in spirito, come mi confermava sempre il medico dell’ospedale di malattie infettive Spallanzani di Roma, dove erano in cura. Durante le vacanze, il paese si stringeva intorno a loro, ospitandoli nelle case, condividendo il bagno e i pasti.

La risurrezione era dare loro quel briciolo di amore che non avevano avuto.

Sì, era un comune denominatore. Ma stiamo parlando di ragazzi che, a causa della loro tossicodipendenza, avevano succhiato la vita dei genitori, distrutto intere famiglie. Ricevevo telefonate da genitori che chiedevano di essere contattati solo quando i ragazzi sarebbero morti. Comunque, credo che la Chiesa faccia fatica ad annunciare la risurrezione perché è una Chiesa che non sorride più, intristita. Noi preti siamo avviliti, intristiti, perché probabilmente non abbiamo fatto esperienza di Gesù Cristo. Io però ho avuto una vita bella. Con i giovani di Villa Glori la vita è stata meravigliosa.

Questi ragazzi cosa ti hanno insegnato della risurrezione?

Mi hanno insegnato ad affezionarmi alla mia vita e a viverla con entusiasmo, a dare senso a tutto. Certo, ci sono stati momenti anche di sofferenza, non nego che ci sono momenti di buio. Ma la vita è troppo bella. Mi hanno insegnato a “rilanciare” sempre nella vita, per usare un linguaggio calcistico.

Nel 2007 hai terminato il tuo servizio a Villa Glori. Cosa hai fatto dopo?

Oggi collaboro in una parrocchia, assisto alcuni malati e faccio il volontario in carcere. In tanti anni, ho incontrato storie diverse. C’è chi sostiene di essere il male fatto persona, chi non si ricorda più quante persone abbia ucciso o abbia mandato ad uccidere. Un giorno un detenuto mi ha chiesto di non mancare mai alle celebrazioni delle messe. «Abbiamo bisogno di un Dio che ci denuncia ma ci ama — ha detto — di una terapia d’urto che riequilibri la nostra vita, assetati di un amore infinito che non si nega mai, che è sempre pronto a ripartire, perché di ripartenze continue è fatta la nostra vita». Io, a ognuno di loro, dico sempre che la misericordia di Dio è come una grossa gomma da cancellare, ma spesso siamo frenati dalla giustizia umana che, a volte, è ingiusta. Se hai sbagliato, devi pagare, certo, ma, se ti penti, davanti a Dio, sei un santo. Io non so se annuncio la risurrezione in questo modo, ma parlo con sincerità. Così il primo giorno che arrivai in carcere, dissi che mi sentivo come un bambino in prima elementare e che non ero lì per insegnare loro niente, ma per trascorrere un’ora e mezza con loro. Con il covid ho avuto molta difficoltà a rientrare in carcere, a causa anche della mia città natale che è Bergamo. Non so se la mia vita sia uno spargimento di semi di risurrezione, ma io credo di sì. Sono contento di essere prete e, se rinasco, rifaccio il prete. Dico spesso al Signore che, quando morirò, voglio farlo come uno dei ragazzi di Villa Glori.

Tu che hai vissuto accanto alla morte per tanti anni, come immagini che sarà, quando toccherà a te?

Mi chiedo spesso come sarà la prima sera che sarò morto. Non so perché, mi viene in mente la sera. Ho ancora paura, nonostante tutto. Mi viene in mente una frase dei padri della Chiesa che dice che la nostra vita è una sbiadita anticipazione di vita eterna. Io ho avuto una vita brillante e bellissima: se questa è una sbiadita anticipazione, mi chiedo come sarà. Sarà secondo me una rivelazione incredibile, inaudita.

di Roberto Cetera
e Beatrice Guarrera