Abbiamo chiesto di incontrare un detenuto protetto, perché la povertà ha tanti volti e uno di questi è il riscatto violento di fronte ad un’infanzia intollerabile e dolorosa. La direzione del carcere di San Vittore, dopo lunghe trafile autorizzative, ci ha accordato di incontrare Alessandro. Nella sala avvocati del carcere la tensione è alta. L’incontro è monitorato dagli agenti di polizia penitenziaria e da un’educatrice che accompagna Alessandro nel percorso di “riabilitazione” alla vita.
«[…] Dobbiamo cercare il punto fermo
al centro della vita umana
che è l’amore — dimora di Dio —
in cui possiamo dimorare
e dove c’è posto per tutti».
Daniel Sulmasy
All’ingresso di Alessandro in questo spazio giallastro e anonimo, tremano anche le pareti delle sale avvocati, oltre a noi che non sappiamo cosa ci aspetta. Il suo volto è pallidissimo, diffidente e segnato da tatuaggi come buona parte del suo corpo. Mi stringe la mano per presentarsi, fredda come un corpo senza vita; un freddo che stride con il calore che fuoriesce dai termosifoni di ghisa che, in carcere, sono dappertutto.
Sei in ansia? gli chiedo. Annuisce terrorizzato… poi inizia a raccontarci di sé.
«Innanzitutto, sono nato a Milano e ho un passato difficile alle spalle… Quando i miei si sono separati, mia madre è stata sfrattata. I carabinieri e i servizi sociali mi hanno preso di forza e portato in un collegio di suore. Dopo essere stato affidato a diverse famiglie, mi affidarono a mia nonna paterna in Sardegna. Lì ho commesso molti reati e sono scappato in Olanda. Al rientro in Italia, mi hanno arrestato con una pena definitiva che cumulava una condanna per spaccio, per concorso in spaccio e furto. Poi… ho commesso il reato più brutto. Ho 26 anni e ho già scontato sette anni e quattro mesi sul suolo della galera».
La tua famiglia l’hai più sentita? Hai altri fratelli? «Mia madre è in carcere, mio padre è in Inghilterra e mia sorella è venuta a mancare quasi due anni fa per motivi che ad oggi non sono certi; si ipotizza un suicidio, ma non credo sia andata così… Ho un altro fratello di sangue e altri fratellastri e sorellastre».
Ti mancano i tuoi affetti? «Più dell’affetto mi manca la libertà».
Alessandro si rifiuta di fare altre attività in carcere che non siano legate alla musica, perché nella vita vuole fare il cantante. Tra un reato e l’altro, riusciva a comporre musica. «Stavo preparando il video del mio pezzo, era tutto pronto e ho fatto un casino con la mia ex, un grosso casino e sono finito dentro. Adesso devo rimettere un po’ di cose in ordine. Ho tre avvocati e... sarò assolto perché ho problemi psichiatrici».
La violenza porta ad altra violenza, proprio come dice Alessandro nel brano della canzone che ci fa ascoltare («semina male e raccogli del male»), una violenza che si legge anche sulla sua pelle mentre mi soffermo a guardargli i tatuaggi. Ha ventisei anni e due figli, uno di quattro e un altro di due anni in affidamento a due famiglie diverse, che non vede da quando è entrato a San Vittore.
«Mi è mancato farmi aiutare da ragazzino. Se mi avessero aiutato, oggi non sarei qua... in collegio salivo sul tetto, entravo dalla finestra e rubavo i soldi negli uffici delle suore per portarli ai ragazzi più grandi. Mi picchiavano, abusavano di me e mi bullizzavano. Poi mi costringevano a fare il chierichetto a messa, anche se non volevo. Col tempo, quella parte di me che tenevo dentro si è sfogata in rabbia contro chi avevo attorno, quindi picchiavo chiunque e poi tutto è andato sempre peggio».
Sulle ultime battute del nostro incontro gli chiedo: Alessandro, cos’è per te la speranza? «La speranza per me è qualcosa in cui credere fino in fondo senza abbattersi, che ti stimola ad ottenere tutto nella vita».
Adesso scattiamo qualche foto, che ne dici? «Sì, a patto che me le fate vedere — risponde —, perché qui non ci sono specchi e non puoi neanche vedere la tua immagine per come è realmente. Ci sono quelli infrangibili che deformano la figura, non è mai... effettivamente la realtà... un po’ come la vita!».
Non temere, Alessandro! Sul nostro libro ci saranno le tue foto e il racconto della tua storia. Noi siamo solamente degli strumenti che consentono a voi di essere vivi e di dare voce al vostro grido doloroso… tutto quello che tu mi hai raccontato io lo scriverò così com’è, senza nessuna deformazione! (Rossana Ruggiero)
di Rossana Ruggiero