SguardiDiversi
Maria, il senso
Pietro è l’ultimo ad arrivare al sepolcro. Così racconta Giovanni: «Correvano ambedue insieme, ma l’altro discepolo precedette Pietro nella corsa e arrivò primo al sepolcro». Giovanni vede le bende distese, ma non entra. Pietro entra invece, nota il sudario ripiegato in un angolo. La resurrezione dai morti è già stata, la resurrezione non è al presente.
I quattro vangeli non la raccontano come un accadere, ma come un accaduto. Nessuno sguardo umano vi assiste. La pietra è rimossa, tutto – di nuovo – è compiuto. Occorre credere senza avere visto, occorre credere e basta, senza prove che non siano quella pietra rotolata via, il sudario piegato, le bende distese.
Nel vangelo di Matteo, l’angelo del Signore invita le donne accorse a non avere paura. La sua luce investe loro e le guardie.
Matteo parla di «gran timore e grande gioia insieme».
Marco parla di «tremore e stupore».
Corrono via, le donne, «perché avevano paura».
Luca parla di meraviglia.
Gesù non appare subito ai discepoli, si fa attendere. Solo nel Vangelo di Giovanni si manifesta subito, davanti agli occhi di Maria Maddalena. Mentre gli altri sono tornati a casa, lei resta a piangere.
Due angeli le domandano il motivo di quel pianto: «Hanno portato via il mio Signore» lei risp onde. Allora appare Gesù, ma lei non lo riconosce. Dice l’evangelista: «non sapeva che era Gesù». Eppure, Gesù risorto ha le stesse sembianze della sua esistenza terrena. Perché Maddalena non lo riconosce?
Qui è notevole la finezza psicologica del racconto evangelico. Giovanni ci mette davanti ai limiti del nostro stesso pensiero, del nostro poter pensare. Non solo hanno un confine le nostre capacità percettive: qui è in gioco l’impensabile. L’impensabile accaduto: l’uomo che Maria ha conosciuto e amato è morto. Le riappare con le sue proprie fattezze, ma tale è la difficoltà di concepire che sia lui, che sia ancora lui, da impedire a Maria di riconoscerlo.
Questo episodio porta con sé un dettaglio di straordinaria intensità e bellezza. Gesù ripete a Maria le stesse domande che le avevano posto i due angeli vestiti di bianco: «Perché piangi? Che cerchi?». La donna pensa che l’uomo sia il giardiniere, l’ortolano – e così spesso è ritratto nelle rappresentazioni pittoriche. La donna risponde: «Se lo hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io lo andrò a prendere». Qualcosa ricorda Antigone, la sua ostinazione di sorella nel dare la opportuna sepoltura al morto.
Di eternamente umano c’è la volontà, la necessità di sentire ancora vicino chi non è più, le spoglie. Penso ai gesti delle camere ardenti: a quello sfiorare, piangendo, l’immobilità del defunto: ancora una carezza, ancora un bacio. All’ostinazione disperata di chi si batte mesi, anni, pur di riavere il corpo di un parente scomparso.
Gesù allora la chiama per nome. Dice solo: «Maria!».
Lei finalmente lo riconosce, lo chiama maestro, si getta ai suoi piedi, vorrebbe abbracciarlo.
Il riconoscimento è avvenuto. Non è stato per via di sguardo, ma di voce. La voce che ci rende unici. Quella precisa voce: inconfondibile. Per ogni essere umano c’è una voce diversa. Esistono voci simili, non voci uguali. La voce come ciò che di più intimo abbiamo. La voce con cui pronunciamo il nome delle persone che amiamo. Ti riconosco dal modo in cui mi chiami, dal modo in cui – tu solo – dici: Maria.
Ricordo come mi chiamavi, ricorderò sempre. «Quando io ti parlo, ti tocco, e tu mi tocchi quando io ti sento, da qualsiasi distanza questo mi venga, fosse anche per telefono, attraverso la memoria di un’inflessione della voce al telefono, per lettera anche, o per e-mail» (Jacques Derrida, Toccare, Jean-Luc Nancy).
Alla fine, prematura, della sua vita, Italo Calvino lavorava a una raccolta di racconti sui cinque sensi. Non riuscì a completarlo, la morte arrivò prima. Resta, fra gli altri, un racconto sull’udito – Un re in ascolto – in cui un sovrano ossessionato dai suoni, dai rumori nelle stanze del palazzo, per le strade della città, capta all’improvviso una voce di donna che canta nel buio. «Quella voce viene certamente da una persona, unica, irripetibile come ogni persona, però una voce non è una persona, è qualcosa di sospeso nell’aria, staccato dalla solidità delle cose. Anche la voce è unica a e irripetibile».
Antonio Tabucchi, in un piccolo libro di riflessione sui propri stessi libri (Autobiografie altrui. Poetiche a posteriori, Feltrinelli, 2003), racconta un fatto personale. La morte di suo padre per un cancro alla laringe. La prima operazione era andata bene, «almeno tecnicamente», il padre di Tabucchi riprese la propria vita, ma l’intervento chirurgico aveva lasciato un segno irreversibile: asportatogli quel piccolo organo cavo che è la laringe, l’uomo non poteva più parlare. Padre e figlio comunicavano a gesti, a sguardi, oppure lui scriveva su una lavagnetta. Cominciò, involontariamente, a farlo anche il figlio: «Forse temevo, utilizzando la mia voce, di sottolineare la sua mutilazione». Così, ricordando quella stagione di disagio e di sofferenza, Tabucchi ragiona intorno al tema della voce umana. È curioso, osserva, che la parola “evocare” – ex vocare, chiamare fuori – abbia a che fare con la voce. Nel mito, Orfeo “evoca” con il suo canto i morti, li richiama, apre un dialogo con le ombre. Lo fa per mezzo della sua voce. Parla, come si dice, con i morti. E loro, possono ancora parlare. Scrive ancora Tabucchi: «Se per ricordare un’immagine appartenuta alla nostra vita passata è necessario, come si dice, “chiudere gli occhi”, per ascoltare la voce di mio padre mi bastava “aprire gli orecchi”, e mettermi in ascolto. E la voce mi arrivava con il suo tono ed i suoi timbri unici. L’immagine di mio padre, per così dire, passava attraverso la sua voce: per evocarne la figura avevo bisogno della sua voce».
Ecco. Maria apre gli orecchi. Gli occhi non contano, non conta il vedere. Sente pronunciare il suo nome, è toccata da quella voce. È per lei il più grande indizio di vita, vita da cui è toccata, vita che vorrebbe di nuovo toccare. Il primo istinto, sentendo una voce nota o ignota, in una stanza vicina, è cercarne la fonte, avvicinarla. Così accade anche con i morti. Ci accade di sentirli – a volte anche solo un intercalare, una scintilla del loro lessico privato. A volte nell’aria vibra ancora una loro precisa musica.
E poi?
«Noli me tangere». È una frase inattesa, sembra quasi brusca, come altre frasi che Gesù pronuncia nella sua vita pubblica. Perché dice così? Perché dice a Maria «non toccarmi», «non voler toccarmi»? Una delle riflessioni più belle sul tema appartiene a un filosofo francese, Jean-Luc Nancy (Noli me tangere, 2003). Con il suo sguardo di laico, Nancy entra nelle pieghe di questo episodio attestato dal solo vangelo di Giovanni. E si domanda le ragioni delle rare rappresentazioni pittoriche. Ne conta poche, le passa al setaccio. In quella di Pontormo, Gesù ha in una mano la falce e con l’altra tiene distante da sé Maria, che sporge il proprio corpo verso di lui per trattenerlo. Più intima è la versione di un pittore spagnolo secentesco, Alonso Cano: Maria trattiene Gesù per la veste, lui posa una mano sulla fronte di lei.
Nelle Scritture, quel gesto non c’è. Vorremmo che ci fosse, lo immaginiamo.
Devi andare, sì, ma lasciami sentire un’ultima volta il calore della tua mano. Nancy è convinto che quel «Noli me tangere» contenga la verità della resurrezione. Il corpo risorto si leva, parte, è indisponibile al tatto. È come – sostiene Nancy – se Gesù dicesse: «Ecco che già sto partendo, io non sono se non in questa partenza». Se ne va, verso il Padre, va via, chiede un atto di amore che non sia possesso, un gesto di amore che non trattenga. Noli: non volere, non pensare di toccarmi. Così parafrasa Nancy: «Tu non tieni niente, non puoi tenere né trattenere niente. Ecco che cosa ne è di un sapere d’amore. Ama ciò che ti sfugge, ama colui che se ne va. Ama che se ne vada». La verità non si lascia trattenere. Occorre credere a una partenza, a un’assenza. «Resta fedele alla mia partenza».
È certo questo il senso di ogni fedeltà. Ti sono fedele anche nella tua assenza. Sono fedele alla tua assenza. È questo il senso di una fede. Sapere di non poter (più) toccare. Accettare di credere nell’assenza. «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre». Perché non sono ancora. C’è uno spazio breve e ultimo fra la morte e il suo riscatto, dura il tempo del pianto e del calore residuo, l’arco che separa il “non più” e un possibile “sempre”.
Maria accetta, sceglie di amare quella partenza. Tommaso, no: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo fianco, non crederò» (Giovanni, 20, 25). Gesù, apparendo all’apostolo, si lascia toccare, gli dice: non essere più incredulo, ma credente. Aggiunge però: «Beati coloro che hanno creduto senza vedere!».
di Paolo di Paolo
Scrittore e drammaturgo, il suo ultimo libro è «Romanzo senza umani», Feltrinelli