Dalla Grecia
La distanza fra Rodi e la Turchia è all’incirca la stessa che in Italia intercorre fra la costa laziale e Ponza, e ancor meno è quella che separa l’isola greca di Kos con la città marittima turca di Bodrum. Con meno di due ore di navigazione si può raggiungere dalla Turchia un’isola greca, e con essa il territorio dell’agognata Europa. Dalla bella cattedrale ortodossa di Rodi, che si trova proprio accanto alla banchina del porto, le montagne turche si stagliano nitidissime: nelle giornate più limpide si riescono a distinguere anche le case dei centri abitati e di Marmaris. Questo spiega perché continuino ogni notte nelle due isole greche gli sbarchi dei migranti da gommoni e da fragili barchini. Un flusso ininterrotto alimentato dai circa 4 milioni di rifugiati e migranti che si trovano in Turchia e sperano di potersi meglio sistemare in qualche paese europeo o ricongiungersi ai familiari che già vi si trovano. Le montagne che si ergono immediatamente alle spalle della costa turca contribuiscono a creare spesso dei vortici ventosi che, malgrado la strettezza del braccio di mare da impegnare, rendono la traversata incerta e insicura.
Quando i barchini raggiungono terra, soprattutto nella parte sud di Rodi, i migranti cercano di dileguarsi immediatamente, complice il buio pesto, all’interno dell’isola per evitare di essere intercettati dalle forze dell’ordine greche. Se ciò accade vengono fermati e trasferiti nell’isola di Kos, che dista circa tre ore di navigazione da Rodi, dove si trova un enorme “centro di accoglienza”. La struttura ospita circa 6000 rifugiati, quando la capienza massima dovrebbe essere di 4000. Di questi 6000 due terzi hanno libertà di movimento nell’isola, mentre circa 2000 sono in uno stato di detenzione di fatto e non possono uscire dal centro, per supposte irregolarità nell’identificazione o per il sospetto di essere appartenuti a qualche formazione armata o terroristica nelle loro nazioni d’origine. La maggioranza di essi sono siriani, scappati dalla guerra civile che ha insanguinato il paese per più di dieci anni, ma le provenienze sono le più varie: dall’Iraq, dall’Iran, ma anche dalla Libia e parecchi dal Pakistan e dai paesi del sud-est asiatico, ultimamente (prima e dopo il 7 ottobre) anche dalla Palestina, soprattutto da Gaza.
Un fuoriuscito dalla città palestinese, che ci supplica di mantenere l’anonimato, racconta: «Ho pagato 6000 dollari per uscire dalla Striscia; da lì attraversando il Sinai ho raggiunto la Giordania e poi la Siria, e da lì la Turchia. Gran parte del viaggio l’ho fatto a piedi perché non avevo più soldi. Ora sono qui, ma spero di poter raggiungere i miei cugini che vivono in Germania». Quelli che sono riusciti a rimanere a Rodi vivono da fantasmi nell’isola. Si presume che siano circa 1500 ma durante il giorno rimangono nascosti ed è quasi impossibile incontrarli. Di essi si occupano attivamente i frati della Custodia di Terra Santa, che sono l’unica presenza cattolica nell’isola. Il parroco di Rodi è un francescano inglese di 64 anni, padre John Luke Gregory, del cui generoso impegno «L’Osservatore Romano» si è già occupato in passato: «Tutte le poche risorse di questa nostra piccola comunità cattolica, che conta meno di 500 fedeli, sono impegnate ad aiutare questi nostri fratelli rifugiati. Ogni martedì — sottolinea — si forma una lunga fila fuori della parrocchia e distribuiamo di tutto: cibo, vestiti, medicine, coperte, materassini. Vengono volentieri da noi perché, a differenza di altri, non chiediamo niente a loro; non ci interessa sapere il loro nome, lo stato giuridico, se sono regolari o meno. Durante l’estate riceviamo molti aiuti dai turisti che prima di ripartire ci lasciano saponi, dentifrici, vestiti e cibo secco avanzato dalle vacanze».
Abdel ha solo 15 anni, non vuole dirci da dove viene ma spiega: «Sono qui con mio padre (ma abbiamo più di un dubbio che sia vero, ndr) e ho lasciato a casa mia madre e le mie sorelle, che mi mancano molto. Noi vorremmo arrivare nel nord Europa e trovare un lavoro per poter poi mandare dei soldi. A casa ogni giorno era una lotta per trovare qualcosa da mangiare per tutti. Il viaggio è stato lungo e anche pericoloso in alcuni tratti, ma salire su un barcone è sempre meglio che morire di fame». Cesar è più grande e viene dalla Siria: «Sono di Knayeh, un villaggio cristiano di circa 2500 abitanti nel governatorato di Idlib. È lo stesso villaggio da cui proviene il vicario apostolico di Alep dei Latini, monsignor Hanna Jallouf, francescano come John Luke Gregory. Quando sono arrivati nel villaggio i jihadisti del cosiddetto “Stato islamico” hanno imposto anche a noi, come nel resto dell’Is, la sharia, che significava in pratica che l’unica possibilità di non essere uccisi era convertirsi all’islam. Così sono scappato prima ad Aleppo e poi, attraverso la Turchia, sono arrivato a Rodi. Non avevo assolutamente nulla con me, solo i vestiti indosso».
Da qui Cesar, non avendo vistosi riconosciuto lo status di rifugiato, ha tentato tre volte di trasferirsi in Europa continentale anche usando passaporti falsi comprati dai mercanti di esseri umani, documenti che però venivano scoperti facilmente a causa del suo nome che, essendo cristiano e non musulmano, generava sospetti: «Una volta sono riuscito a superare i controlli ma poi sono stato scoperto dalle hostess dell’aereo che doveva portarmi in Belgio. Quindi ho incontrato padre John Luke che, dopo un lungo peregrinare tra Lussemburgo, Germania e Italia, mi ha aiutato a regolarizzare la mia posizione». Ora Cesar è riuscito a Rodi a realizzare la sua aspirazione. Gregory afferma soddisfatto: «Cesar mi chiama papà perché, dice, “tu mi hai preso dalla strada e mi hai generato a una nuova vita”».
Il francescano aggiunge: «Quante storie come questa ho incontrato nella mia esperienza qui a Rodi. Con molti di essi sono rimasto in contatto nei vari paesi europei dove sono stati trasferiti». Come quella mamma siriana che, sola con tre figli piccoli, stava per morire a causa di una violenta allergia non diagnosticata, a cui, lui che è anche infermiere, ha salvato la vita. Ora vive felicemente in Belgio con i suoi bambini.
Nella stanza dove fra John Luke accoglie i rifugiati campeggia un’ enorme fotografia di Papa Francesco: «Non penso di fare nulla di speciale, nulla di più di quanto ogni cristiano debba fare in queste condizioni. Ma ho due aiuti grandi che mi sento di ringraziare», confida: «La popolazione di Rodi che accoglie generosamente questi poveri e non dà segni di fastidio. Quante volte ho visto i rifugiati ospitati dopo l’orario di chiusura nei ristoranti per offrirgli un pasto caldo e una doccia! E poi Papa Francesco. Le sue parole ci hanno sempre dato forza. E ogni tanto penso: lui è l’unico, ma proprio l’unico, leader mondiale che ha preso a cuore le condizioni dei migranti e dei rifugiati. Cosa sarebbe di questi poveretti se non ci fosse lui?».
da Rodi
Roberto Cetera